GLI EFFETTI DELETERI DI CUI NON SI PARLA
Questo articolo è un estratto dal documento “Costruire il futuro: Curare la biodiversità agricola e naturale” (prossimo link), scritto da un gruppo di persone perché fosse parte integrante del progetto “Biodiversità e sementi contadine”, presentato alla Regione Emilia-Romagna dalla Rete per la Sovranità Alimentare (prossimo link) e dal CRESER (Coordinamento Regionale per l’Economia Solidale in Emilia-Romagna)
Sommario:
I vecchi OGM: le colture transgeniche agli inizi, ieri e oggi
- Agli inizi: Gli OGM transgenici della prima ondata
- Ieri e oggi: Gli OGM transgenici della seconda ondata
Effetti negativi dei vecchi OGM
- Effetti delle colture GM resistenti agli erbicidi
- Effetti delle colture Bt resistenti agli insetti parassiti
- Sostanziale ignoranza circa le proteine prodotte dalle piante Bt
- Inquinamento genetico da transgeni
(Nota: i numeri progressivi che compaiono fra parentesi a fianco delle voci bibliografiche sono relativi alla bibliografia del documento originale.)
I VECCHI OGM: LE COLTURE TRANSGENICHE AGLI INIZI, IERI E OGGI
Grazie alle tecniche di ingegneria genetica sviluppate negli anni Settanta e Ottanta, e all’introduzione del brevetto sui viventi (1980), dagli anni Novanta in poi la strategia principale dei grandi gruppi dell’agroindustria è stata cercare l’aumento della produttività in agricoltura mediante l’utilizzo di colture modificate geneticamente. Le prime colture biotech ad essere commercializzate sono state colture transgeniche, cioè piante modificate nel loro DNA tramite l’inserimento di geni di altre specie. Sono così state immesse in campo varietà transgeniche di alcune tra le principali colture: mais, soia, cotone, colza, patata. (Per ulteriori approfondimenti tecnici, si può vedere in questo blog Lezioni dal caso del mais messicano – Parte II L’inquinamento genetico oggi.)
La cosiddetta “prima ondata” di OGM era composta da varietà GM con inseriti nel loro DNA gli elementi genetici estranei necessari per l’espressione di un singolo carattere, ad esempio un gene batterico per la resistenza della pianta all’erbicida glifosato oppure, in un altro tipo di OGM, geni del batterio Bacillus thuringiensis (Bt), per ottenere piante resistenti ai parassiti tramite la produzione di proteine Bt insetticide.
A partire dai primi anni 2000, tuttavia, i mercati mondiali sono stati invasi da una “seconda ondata” di OGM, costituita da varietà in cui sono stati inseriti simultaneamente molteplici caratteri di origine estranea. E così abbiamo varietà GM in cui sono state cumulate le resistenze a uno, due o anche tre gruppi di insetti parassiti (lepidotteri come la piralide, fillofagi, coleotteri come la Diabrotica); le resistenze a uno, due, tre o persino quattro diversi pesticidi chimici (oltre all’iniziale glifosato, oggi abbiamo OGM resistenti anche a glufosinate, 2,4 D, Dicamba e sulfoniluree); varie modificazioni della composizione chimica della pianta (p.e., produzione di bioetanolo; resistenza alla siccità; aumento di particolari amminoacidi, e altre), il tutto nelle più svariate combinazioni entro una stessa pianta GM.
A quanto si legge nel sito di ISAAA, un’organizzazione internazionale che tiene un esaustivo database delle varietà GM approvate e messe in commercio in tutto il mondo, le varietà GM con inserita la resistenza ad erbicidi (singola oppure cumulata con altri caratteri) costituiscono l’86,88% sul totale delle varietà GM approvate (23: ISAAA, GM Approval Database, aggiornato a gennaio 2020). Le varietà GM resistenti agli insetti (sempre come carattere “singolo” o cumulato ad altri) rappresentano il 75,5% del totale. Molto meno rappresentate sono le varietà GM con modifiche nella “qualità del prodotto” (23,74%), ancora meno sono quelle con resistenza alle malattie (7,18%) o agli stress abiotici tipo la siccità (2,98%); mentre sono appena 3 in tutto, ovvero lo 0,74%, le varietà GM in cui la modifica riguarda i processi della crescita/produttività.
In termini di superficie coltivata a OGM, il rapporto ISAAA (24: ISAAA, 2018) sulla diffusione delle colture biotech per l’anno 2018 riporta che le colture GM con i tratti cumulati della resistenza agli insetti e della tolleranza agli erbicidi hanno coperto il 42% dell’area globale coltivata a OGM, che nel mondo ammontava a circa 190 milioni di ettari. La tolleranza agli erbicidi è il tratto più diffuso, in quanto nel 2018 queste colture coprivano il 46% dell’area totale coltivata a OGM. Le colture GM più diffuse sono la soia e il mais e il paese in cui la diffusione di piante GM è maggiore sono gli USA.
Se questa è la fotografia degli OGM transgenici – “vecchi” ma sempre in campo – vale la pena approfondire l’analisi dei loro effetti, ovvero degli aspetti negativi emersi in oltre vent’anni di applicazione pratica.
Effetti negativi dei vecchi OGM
Colture GM resistenti agli erbicidi
Partiamo quindi con l’analizzare il carattere più diffuso nelle colture GM, la tolleranza agli erbicidi. Nel 1996, la principale giustificazione avanzata da Monsanto per ottenere l’approvazione del primo OGM – un mais transgenico resistente al suo erbicida Roundup a base di glifosato – era che queste piante avrebbero permesso di ridurre le irrorazioni, facendo diminuire il consumo di erbicidi chimici, con grande vantaggio per l’ambiente e la salute umana. E’ andata così?
Il glifosato è l’erbicida più utilizzato negli USA e in tutto il mondo, e il suo uso è aumentato vertiginosamente in seguito all’introduzione delle colture GM resistenti a questo erbicida, come si vede dal grafico sottostante (25: Benbrook, 2016). In base ai dati raccolti, Benbrook afferma: “Attualmente circa il 56% del glifosato utilizzato a livello mondiale è usato per irrorare le colture geneticamente modificate resistenti agli erbicidi”.
Benbrook, “Trends in glyphosate herbicide use in the United States and globally”, Environmental Sciences Europe, 2016; 28(1): 3
Che l’aumento nel tempo dell’uso del glifosato sia legato alle colture GM è stato confermato anche da un altro studio. Confrontando agricoltori USA che coltivano mais e soia GM e agricoltori che non usano OGM (26: Perry et al., 2016) risulta che i primi hanno irrorato i loro campi con quantità di erbicida crescenti nel tempo.
Una delle principali cause del costante aumento nell’uso di erbicidi è l’emergere di nuove infestanti resistenti. La risposta data dalle aziende a questo problema è stata la produzione di sempre nuovi OGM, che cumulano resistenze a più erbicidi, tutti molto tossici. Ma la rincorsa andrà all’infinito, perché la comparsa di queste resistenze è un fenomeno del tutto naturale e prevedibile, come vedremo meglio più avanti (vedi in questo blog Perché modificare il DNA non può essere la soluzione),. Con quali conseguenze per l’ambiente e per la salute umana, non è difficile immaginare.
Vediamo allora un po’ di studi scientifici sugli effetti che il glifosato produce sugli ecosistemi e sull’uomo. Ambiente Una vasta rassegna – più di 750 lavori scientifici (27: Ferment et al., 2017) – curata dal passato Ministero dello sviluppo agricolo del Brasile dimostra che il glifosato e gli altri pesticidi – oltre a inquinare terreni e acque fino alle falde freatiche – sono neurotossici, distruttori endocrini, citotossici, genotossici (cioè provocano rotture nel DNA, aberrazioni cromosomiche, frammentazione della cromatina nel nucleo) e cancerogeni. Questi effetti deleteri sono stati dimostrati su una vasta gamma di specie (fra parentesi sono riportati solo pochi esempi), dai microrganismi del terreno (perdita di fertilità del suolo. 28: Zaller et al., 2015), ad insetti (grave declino di tutte le specie a livello mondiale, vedi ad esempio riduzione delle popolazioni di farfalle, 29: Pleasant et al., 2013; problemi comportamentali delle api 30: Herbert et al. 2014), anfibi (malformazioni, anomalie dello sviluppo, blocco della metamorfosi 31: Paganelli, Carrasco et al. 2010), ratti e topi (effetti genotossici e neuroendocrini provati da Istituto Ramazzini 32: Manservisi et al., 2019).
Salute umana in generale Un lavoro condotto su donne in gravidanza (33; Parvez, et al., 2018) che vivevano fra i campi di mais geneticamente modificato dell’Indiana (uno degli stati della Corn Belt, dove il mais è al 90% GM), ha trovato una stretta correlazione positiva tra la quantità di glifosato nelle loro urine e la nascita prematura dei loro figli, evento che condiziona pesantemente l’intera esistenza del bambino.
Un altro studio molto importante (34: von Ehrenstein et al., 2019) apparso sul British Medical Journal è stato condotto in una regione agricola della California. Gli autori hanno trovato una correlazione altamente significativa tra l’esposizione durante la gravidanza al glifosato e ad altri pesticidi, irrorati in un raggio di 2 km dalla residenza della madre, e una maggiore probabilità per i figli di ricevere una diagnosi di disturbo dello spettro autistico. L’esposizione prenatale al glifosato faceva aumentare del 30% la probabilità di un disturbo con disabilità mentale, una probabilità che arrivava al 50% se l’esposizione continuava dopo la nascita durante il primo anno di vita del bambino.
Grafico della correlazione tra aumento dell’uso del glifosato negli USA e aumento dell’autismo nella popolazione giovanile (dati forniti in base a IDEA – Individuals with Disabilities Education Act).
Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro – IARC
Il glifosato probabile cancerogeno per l’uomo Nel 2015 la commissione della IARC, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro che fa capo all’OMS, ha valutato gli effetti del glifosato sugli esseri umani riportando una vasta casistica di lavori che ne dimostrano effetti neurotossici, genotossici, teratogeni, aborti spontanei, nascite premature, anomalie fetali (35: IARC, 2015). L’esame dei dati ha indotto la IARC a classificare il glifosato come “probabile cancerogeno per l’uomo”, e a collocarlo nella classe 2A (che significa sicuramente cancerogeno per gli animali, probabilmente anche per l’uomo). La IARC ha tuttavia riconosciuto come provata l’associazione tra glifosato e linfoma non-Hodgkin. Nonostante le fortissime pressioni delle corporation produttrici, quella valutazione è rimasta invariata. A tutt’oggi negli Stati Uniti sono in dibattimento più di 100 000 cause da parte di agricoltori che si sono ammalati di linfoma non-Hodgkin in seguito all’uso del Roundup; le cause già concluse hanno visto Bayer/Monsanto riconosciute colpevoli di avere nascosto per decenni i dati sui rischi di tumore.
Occorre ricordare che il già citato lavoro dell’Istituto Ramazzini (32) è lo studio pilota di una sperimentazione di cinque anni sui topi, finalizzata a chiarire la cancerogenicità del glifosato per l’uomo. Lo studio pilota già concluso ha trovato che, dopo tre mesi di esposizione al solo glifosato oppure al Roundup, i topi mostravano alterazioni dello sviluppo sessuale, dei nuclei cellulari e della microflora intestinale, preludio alle malattie croniche e degenerative più gravi, cancro compreso. Al lavoro dell’Istituto Ramazzini si deve il riconoscimento in passato dell’azione cancerogena del cloruro di vinile, benzene, aspartame e, di recente, delle radiazioni della telefonia mobile.
Colture Bt resistenti agli insetti parassiti
Piuttosto speculare, e ugualmente desolante, è la storia delle colture GM (soprattutto mais e cotone) modificate per produrre proteine insetticide. Queste piante sono state infatti modificate con l’inserimento di uno o di solito più geni estratti da un batterio, il Bacillus thuringiensis o Bt. I geni Bt (transgeni perché di origine batterica, perciò estranei alla pianta) controllano la produzione di due famiglie di proteine insetticide: le proteine Cry tossiche per i lepidotteri, e le proteine Vip tossiche soprattutto per i coleotteri.
L’introduzione delle colture Bt in un paese segue un’evoluzione che si ripete ovunque uguale, perciò è istruttivo ricostruire ciò che è avvenuto in seguito all’introduzione dei mais Bt in Sud Africa (36: den Berg et al., 2013). Fin dalla prima stagione di coltivazione, gran parte degli insetti si è rivelata resistente alle proteine insetticide delle piante Bt. La risposta delle corporation è stata, dopo pochi anni, l’introduzione di un mais GM in grado di produrre contemporaneamente quattro proteine insetticide nella stessa pianta. Attualmente, i lepidotteri sudafricani sono diventati resistenti a tutte le proteine Bt. Conclusione: oggi il Sud Africa si trova a dover fronteggiare infestazioni del lepidottero Busseola incontrollabili.
Naturalmente, i coleotteri non sono da meno dei lepidotteri, quanto a sviluppare resistenze alle proteine insetticide delle piante Bt. Soprattutto non lo è la Diabrotica virgifera, il principale parassita dei campi di mais in Nord America ed Europa. In un lavoro scritto da ricercatori dell’EFSA e dell’USDA (37: Devos et al., 2013), si afferma: “in 12 su 12 esperimenti si è osservato il rapido sviluppo di popolazioni di Diabrotica resistenti ai mais GM che producono proteine Bt per uccidere questo parassita”.
Molti altri lavori denunciano il diffondersi in Diabrotica di resistenze alle proteine Bt, tra questi vi è un lavoro pubblicato nel 2019 (38: Gassmann et al., 2019). Gli autori affermano: “L’ampia adozione delle colture Bt ha portato all’evoluzione di resistenza alle proteine Bt nella Diabrotica virgifera, uno dei più gravi parassiti del mais negli Stati Uniti centro-occidentali… Ad oggi, ci sono prove di evoluzione di resistenze contro tutte le tossine Bt finora utilizzate per controllare questo parassita”. E concludono: “La presenza di popolazioni di Diabrotica resistenti a tutte le proteine Bt disponibili minaccia l’utilità delle tecnologie transgeniche attuali e future nel controllo di questo parassita”.
Ma vale la pena sottolineare anche altri aspetti delle colture Bt. Per le loro naturali proprietà insetticide, l’alta specificità di specie-bersaglio e la scarsa tossicità per le specie non-target, queste proteine – che nel batterio Bacillus thuringiensis si depositano in forma di cristalli – sono state usate largamente anche in agricoltura biologica. Ciò ha permesso alle corporation produttrici delle colture Bt di presentarle come sicure per via della ‘lunga storia di uso sicuro’ delle proteine Bt. Ma in un importante lavoro, corredato da amplissima e solida bibliografia, Jonathan Latham et al. (39: Latham et al., 2017) dimostra che le aziende “dimenticano” di evidenziare alcuni aspetti importanti:
- le piante ingegnerizzate producono le proteine Bt NON come cristalli inerti, ma in forma solubile = attiva;
- mentre i cristalli naturalmente prodotti dal batterio diventano attivi solo in seguito al contatto con specifici enzimi gastrici di particolari larve, le proteine Bt delle piante GM sono attive costantemente e in tutte le parti della pianta GM, dalle radici, al fusto, al polline, ai chicchi;
- le proteine prodotte dalle piante Bt NON sono uguali nella sequenza di amminoacidi alle proteine Bt naturali. Spesso le proteine ingegnerizzate sono troncate o in altro modo modificate rispetto a quelle naturali;
- la tossicità delle proteine insetticide delle piante Bt NON è stata MAI esaminata direttamente. Per gli esperimenti si utilizzano le proteine prodotte da cellule batteriche assunte come equivalenti, nonostante sia ben noto che differiscono in misura importante dalle proteine Bt delle piante GM.
Manca quindi una seria, scientifica valutazione della tossicità a lungo termine e dei rischi per l’ambiente e la salute umana collegati alle proteine insetticide prodotte dalle piante Bt.
Alla luce della sostanziale ignoranza degli effetti prodotti dalle piante Bt, è molto inquietante il fatto che queste proteine siano state trovate nel sangue di donne canadesi in gravidanza e dei loro feti (40; Aris e Leblanc, 2011). Quindi, contrariamente a quanto affermano le compagnie produttrici, le proteine Bt delle piante GM insetticide persistono nell’ambiente ben più di qualche giorno, anzi entrano nella catena alimentare umana con effetti che, dopo più di 20 anni, continuano a NON essere studiati.
Inquinamento genetico da transgeni
Infine, ma non certo ultimo, fra i problemi creati dagli OGM vi è quello dell’inquinamento genetico da transgeni. Fin dalla introduzione delle prime colture GM, a metà degli anni Novanta, è stata forte la preoccupazione per il possibile “flusso genico” – ovvero il trasferimento di transgeni – dagli OGM alle colture normali o alle specie selvatiche affini. Oggi, a vent’anni di distanza, si sorride amaramente nel rileggere le raccomandazioni rivolte alle industrie biotech da enti ufficiali come l’inglese Advisory Committee on Releases to the Environment, ACRE (41: ACRE, 2001) ove si legge che ridurre il temuto flusso genico “dovrebbe essere il principale obiettivo dei biotecnologi”. Si suggeriva quindi di (1) modificare le piante in modo da minimizzare il rischio di flusso genico, (2) addizionare alle piante la minore quantità possibile di DNA estraneo, (3) fare in modo che i transgeni fossero espressi solo quando e dove necessari, cioè ad esclusione del polline e dei frutti, al fine di ridurre la non necessaria esposizione di organismi non–target, (4) minimizzare la dispersione dei transgeni non immettendo le piante GM nell’ambiente, ma coltivandole in luoghi confinati tipo serre, (5) “Sarebbe opportuno non usare come marcatori geni per la resistenza agli antibiotici”.
Vent’anni dopo possiamo affermarlo con certezza: tutte queste raccomandazioni erano più che sensate, le paure realistiche, ma nessuno di quegli accorgimenti è stato MAI adottato né dalle aziende produttrici, né dalle regolamentazioni degli stati.
I risultati non si sono fatti attendere.
Già nel 2002 una pubblicazione dell’istituto di ricerca indipendente americano Institute for Agriculture and Trade Policy, IATP (42: IATP, 2002) denunciava il grande scandalo degli inquinamenti genetici che si stavano diffondendo in ogni parte del mondo in cui venivano introdotte le colture GM resistenti al Roundup, il primo tipo di OGM commercializzato. In particolare, in Canada si stava diffondendo una colza diventata resistente agli erbicidi, perché inquinata da polline di colza GM.
Il problema non è mai stato superato, come dimostra un lavoro (43: Knispel et al., 2008), ripubblicato nel 2017 dalla Cambridge University Press, che denuncia il diffondersi in Canada di popolazioni di colza che, incrociandosi liberamente, erano divenute resistenti a tre diversi erbicidi. Nell’articolo si afferma: “Nel Canada occidentale, le popolazioni invasive di colza resistente ad erbicidi sono onnipresenti al di fuori dei campi coltivati…La resistenza al glifosato è stata riscontrata in 14 (88%) di queste popolazioni, la resistenza al glufosinato in 13 popolazioni (81%) e la resistenza all’imidazolinone in 5 popolazioni (31%). La resistenza multipla a più erbicidi è stata osservata in 10 delle popolazioni testate (62%)“.
Ma ancora prima, nel 2001, scoppiò lo scandalo della contaminazione genetica del mais messicano. In un lavoro pubblicato su Nature (44: Quist e Chapela, 2001) due ricercatori dell’università di Berkeley, California, denunciarono la presenza di transgeni nel DNA di alcune varietà native di mais, coltivate in zone impervie dello stato di Oaxaca. Lo scandalo ebbe risonanza mondiale, perché i sostenitori degli OGM da sempre insistevano che i rischi d’inquinamento genetico erano inesistenti. Ma soprattutto perché si trattava del Messico, il centro di origine e di evoluzione di Zea mays. Il Messico infatti è la culla del mais e tuttora custodisce oltre il 60% della diversità genetica di questa pianta, che oggi rappresenta una delle quattro colture fondamentali per l’alimentazione umana.
Dopo vari tentativi di negare il dato e potenti campagne diffamatorie contro i due ricercatori, lo stesso Ministero dell’Ambiente messicano confermò la validità del risultato tramite proprie analisi. Ancora oggi il caso del mais messicano continua ad essere al centro di controversie e nel tempo vari studi hanno confermato la presenza di transgeni nelle varietà native (45: Pineyro-Nelson et al., 2009; 46: Agapito‐Tenfen et al., 2017). Un altro importante lavoro (47: Ellstrand et al., 2007) ha dimostrato l’alta frequenza con cui il mais GM può contaminare anche il teosinte, la pianta selvatica da cui gli antichi abitatori del Messico seppero ottenere la specie Zea mays (vedi in questo blog LEZIONI DAL CASO DEL MAIS MESSICANO – Parte I Dalle origini al presente.)
La probabile fonte dell’inquinamento è stata individuata nei mais ibridi reperibili in commercio e negli aiuti alimentari distribuiti ai contadini, ignari degli OGM, dai magazzini governativi della DICONSA. Tutti questi mais provengono principalmente dagli Stati Uniti, che in base alla deregulation degli OGM non separano i mais GM da quelli normali.
Anche in Italia è noto un caso (48: Udinetoday, 2013) di contaminazione genetica da OGM. Un agricoltore friulano, in aperta violazione delle leggi italiane che vietano la semina di OGM, aveva seminato i suoi campi con la varietà di mais GM Mon810. L’allora esistente Corpo Forestale dello Stato eseguì su terreni limitrofi ai campi seminati con Mon810 campionamenti e analisi del DNA. I risultati dimostrarono la presenza di un inquinamento genetico da mais transgenico che arrivava fino al 10%.
Occorre tenere presente che i geni estranei – detti perciò transgeni – inseriti nel DNA dell’organismo prescelto, per poter funzionare nel DNA di una specie differente devono essere associati anche ad altri elementi genetici, che possono provenire dalle più varie specie. L’insieme di tutti questi elementi (tra cui, ad esempio, geni batterici per la resistenza ad antibiotici) costituisce una “cassetta genetica”, che deve poi essere introdotta mediante vettori nella pianta da modificare (e di solito c’è più di una cassetta nel DNA di una stessa pianta).
Con la contaminazione genetica, le colture GM trasferiscono alle altre piante intere “cassette genetiche”, con il loro mosaico di geni di varia origine (geni per la resistenza agli antibiotici compresi). I transgeni penetrano nel DNA di altre piante tramite il polline o gli essudati radicali delle colture GM, e attraverso la “cassetta” un intero carico di geni estranei può essere trasferito. Con il susseguirsi di generazioni e di ibridazioni, questi pacchetti di geni estranei finiscono per accumularsi nei genomi delle piante contaminate, con effetti imprevedibili e destabilizzanti.