biodiversità dei chicchi di mais

I RISCHI DI INQUINAMENTO GENETICO NELLA CULLA DEL MAIS A VENT’ANNI DALLA PRIMA SCOPERTA

di Daniela Conti

Parte II  L’inquinamento genetico del mais messicano oggi

I MAIS GM

Alcune caratteristiche generali dei mais transgenici

       Il DNA degli OGM è un mosaico di “pezzi” da specie differenti

       Il promotore 35S del CaMV

 

I DANNI DEI MAIS GM NEL MONDO

Danni dei mais resistenti agli erbicidi

       Il glifosate probabile cancerogeno per l’uomo

Danni dei mais resistenti agli insetti parassiti

      L’escalation delle resistenze negli insetti

 

LA CONTAMINAZIONE IN MESSICO

Anni di studi scientifici

Varietà native e mais GM della prima e della seconda ondata

L’INQUINAMENTO GENETICO DEL MAIS MESSICANO OGGI

 

I MAIS GM

Riprendendo quanto si è detto nella Parte I (vedi qui ), con gli anni 2000 si affermano i mais geneticamente modificati (GM). Come abbiamo visto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta del ‘900 vengono sviluppate le tecniche dell’ingegneria genetica, con cui il DNA di una pianta o di un animale può essere modificato inserendovi geni di altre specie, dando così origine a un organismo transgenico, spesso chiamato OGM, ovvero organismo geneticamente modificato. Alle soglie del secolo XXI, queste tecniche, insieme al brevetto sui viventi (1980), hanno aperto alle grandi multinazionali dell’agroindustria la strada per lo sviluppo e lo sfruttamento commerciale delle varianti transgeniche di alcune tra le principali colture: soia, cotone, colza e mais.

Alcune caratteristiche generali dei mais transgenici

Il DNA degli OGM è un mosaico di “pezzi” da specie differenti

struttura del DNA

Il DNA è composto da due filamenti – formati da serie di unità di zucchero e fosfato – che si avvolgono ad elica. Ogni unità di zucchero/fosfato porta una base azotata, che sporge all’interno dell’elica. Le basi sono di 4 tipi: adenina (A), guanina (G), citosina (C) e timina (T); A si appaia sempre con T sul filamento opposto e C sempre con G. Le sequenze di basi costituiscono i geni e gli altri elementi genetici. Ciascun filamento viene letto dall’apparato cellulare e trascritto in un filamento singolo di RNA, molto simile al DNA ma con la base uracile (U) al posto di T. L’RNA dei geni è tradotto in proteine, mentre l’RNA degli altri elementi genetici spesso dà origine a RNA funzionali che assolvono compiti diversi

I caratteri ritenuti utili da inserire in un organismo animale o vegetale – p.e. la resistenza a erbicidi inserita nel mais – sono controllati da geni spesso di origine batterica, o comunque di specie diversa da quella dell’organismo che si vuole modificare. Questi geni estranei – detti perciò transgeni – che vengono inseriti nel DNA dell’organismo prescelto devono essere associati anche ad altri elementi genetici per poter funzionare entro un DNA di specie differente. Questi altri elementi in genere comprendono un promotore, cioè l’elemento che deve attivare la trascrizione del transgene entro il nuovo DNA; un terminatore, cioè il segnale di stop della trascrizione del transgene; geni marcatori o di altro tipo, necessari per le procedure ingegneristiche. Tra questi ultimi vi sono, ad esempio, geni batterici per la resistenza ad antibiotici, usati per la selezione delle cellule trasformate. (E’ noto che la crescente diffusione di questi geni sta causando problemi sempre più gravi alla salute umana e animale in tutto il mondo.) Tutti questi elementi genetici associati ai transgeni possono essere delle più varie provenienze, cioè derivare da specie tutte differenti.

L’insieme di tutti questi elementi costituisce una “cassetta genetica”, che deve poi essere introdotta nel DNA dell’organismo da modificare. L’introduzione di queste “cassette” (che possono essere più di una nello stesso DNA) avviene mediante vettori, quasi sempre plasmidi batterici o virus ingegnerizzati. I rischi di mutazioni e cancerogenesi collegati a questi vettori sono noti e dimostrati. [Tramite la tag vettori è possibile trovare nel blog www.nuovabiologia.it molti articoli su questo problema.]

Il DNA delle piante (e degli animali) GM è perciò trattato come una collezione meccanica di pezzi indipendenti, mentre oggi sappiamo che il DNA in realtà funziona come un insieme di elementi interagenti in modo complesso e armonico. Non solo i geni si influenzano reciprocamente, ma la loro attività cambia in base ai segnali che arrivano dall’ambiente (vedi in questo blog l’articolo Epigenetica: La rivoluzione copernicana in biologia qui ).

Il DNA a “mosaico” degli OGM è quindi un prodotto ingegneristico progettato per soddisfare esigenze industriali, e non il frutto dei processi di selezione naturale mediati dall’interazione con le specifiche condizioni ambientali in cui la pianta cresce (processi che sono invece alla base delle procedure di selezione nell’agricoltura contadina). Piante e animali GM sono organismi del tutto alieni agli ecosistemi in cui vengono introdotti e come tali si comportano: sono organismi invasivi e infestanti, in quanto estranei alla rete ecologica che mantiene gli equilibri fra le diverse specie viventi in un dato ambiente.

 

Il promotore 35S del CaMV

CaMV

Mappa genomica del virus del mosaico del cavolfiore (CaMV). All’interno è segnato il tratto corrispondente al promotore 35S

ome si è detto, perché un transgene possa funzionare in seguito alla sua introduzione in un DNA estraneo (e quindi mancante degli specifici elementi genetici che ne controllano l’attività), è necessario che sia abbinato a un promotore, anch’esso estraneo, capace di attivare la trascrizione del transgene entro il nuovo genoma.

Nelle piante GM si usa a questo scopo il promotore 35S derivante dal virus del mosaico del cavolfiore (CaMV). Il 35S è un promotore forte e costitutivo, cioè attivo permanentemente e in tutte le cellule della pianta. Il funzionamento del 35S è quindi indipendente dal controllo ecologico esercitato dall’ambiente e dagli altri geni nello stesso DNA. E’ stato dimostrato che il 35S spesso altera la funzione dei geni residenti, anche  grande distanza nel DNA in cui viene inserito. Quindi si comporta da agente di perturbazione del DNA e di mutazione. (vedi  qui   https://www.tandfonline.com/doi/full/10.4161/gmcr.21406 )

I DANNI DEI MAIS GM NEL MONDO

Le piante OGM sono in campo da più di vent’anni e nel tempo le prove dei loro effetti nocivi e del loro sostanziale fallimento come strategia colturale – vero emblema del modello industriale di agricoltura – sono andate accumulandosi molto numerose. Qui cercherò di metterne in evidenza alcuni aspetti, rimandando per approfondimenti agli altri articoli del blog www.nuovabiologia.it

Danni dei mais resistenti agli erbicidi

Il primo mais resistente a un erbicida fu introdotto nel 1996 dalla Monsanto, che modificò una varietà tradizionale inserendo nel suo DNA una “cassetta genetica” contenente, fra gli altri elementi transgenici, il promotore 35S e un gene derivato dal batterio Agrobacterium tumefaciens. Il transgene batterico controlla la produzione di un enzima, che rende la pianta resistente all’azione chimica del glifosate contenuto nel Roundup, erbicida prodotto dalla stessa Monsanto. Ciò consentiva di irrorare i campi con il diserbante, uccidendo le altre piante ma non il mais GM.

La migliore dimostrazione del fallimento dei mais e delle altre colture GM ingegnerizzate per resistere agli erbicidi sta proprio nella necessità per l’industria di produrre a getto continuo nuove varietà GM, cumulando nel loro DNA sempre più geni per la resistenza a erbicidi sempre più tossici. (Il 2,4-D, ad esempio, era un componente dell’agente arancio, il potente defoliante usato dagli americani durante la guerra in Vietnam, dove causa ancora oggi la nascita di bambini deformi.)

Ovunque vengono coltivate queste varietà GM, si innesca un circolo vizioso: emergono erbe infestanti che resistono agli erbicidi → si fa un uso sempre più massiccio di erbicidi → emergono nuove resistenze nelle infestanti. E così andrà avanti all’infinito, perché così funzionano le ineliminabili difese naturali delle piante. La rapida comparsa di infestanti resistenti agli erbicidi usati sulle colture GM ad essi tolleranti ha comportato un aumento vertiginoso nell’uso dei pesticidi. La promessa iniziale delle industrie era che le piante GM avrebbero fatto diminuire l’utilizzo di diserbanti chimici, ma i dati dicono l’esatto contrario: già nel 2014 la quantità irrorata del solo glifosate era di 15 volte superiore ai livelli del 1996, anno di introduzione degli OGM (vedi qui  e qui ).

aumento-uso-glifosato-in-Stati-Uniti

Fonte: C. M. Benbrook, “Trends in glyphosate herbicide use in the United States and globally”, Environmental Sciences Europe, 2016; 28(1):  vedi qui  e qui  

Purtroppo ciò non è senza conseguenze. Essendo infatti biocidi, i pesticidi chimici recano danno a tutto ciò che vive, umani compresi. Ampie casistiche di lavori scientifici (vedi qui  ) dimostrano che questi composti – oltre a inquinare terreni e acque fino alle falde freatiche – sono neurotossici, distruttori endocrini, citotossici, genotossici (cioè provocano rotture nel DNA, aberrazioni cromosomiche, frammentazione della cromatina nel nucleo cellulare) e cancerogeni. I loro effetti deleteri sono stati dimostrati su una vasta gamma di specie, dai microrganismi del terreno (perdita di fertilità del suolo), ad insetti (grave riduzione delle popolazioni di farfalle, api e altri impollinatori), anfibi (malformazioni, anomalie dello sviluppo, blocco della metamorfosi), ratti e topi (effetti genotossici e neuroendocrini), esseri umani (effetti neurotossici, genotossici, teratogeni, aborti spontanei, nascite premature, anomalie fetali). [Per approfondire i singoli temi e risalire alle specifiche voci bibliografiche, vedi in questo blog l’articolo “Agricoltura sana per un corpore sano”.]

Per quanto riguarda la salute umana in generale, mi limiterò qui a citare un solo lavoro, pubblicato nel 2018 (vedi qui  ). Questo studio, condotto su donne in gravidanza che vivevano fra i campi di mais geneticamente modificato dell’Indiana (uno degli stati della Corn Belt, dove il mais è al 90% GM), ha trovato una stretta correlazione positiva tra la quantità di glifosate nelle loro urine e la nascita prematura dei loro figli, evento che condiziona pesantemente l’intera esistenza del bambino.

Il glifosate probabile cancerogeno per l’uomo           

Sulla potenziale cancerogenicità del glifosate per gli esseri umani da anni è in atto uno scontro fra corporation produttrici e agenzie mondiali della sanità. Nel 2015 la commissione della IARC, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (vedi qui       ) che fa capo all’OMS (quindi all’ONU), ha classificato il glifosate come “probabile cancerogeno per l’uomo”, e lo ha collocato nella classe 2A (che significa sicuramente cancerogeno per gli animali, probabilmente anche per l’uomo, rispetto al quale la commissione ha ritenuto che le prove sperimentali non fossero ancora sufficienti). La IARC ha tuttavia riconosciuto come provata l’associazione tra glifosate e linfoma non-Hodgkin. Questa valutazione ha suscitato la rabbiosa reazione di Monsanto, che ha cercato con ogni mezzo di screditare la IARC e gli scienziati che hanno valutato le evidenze scientifiche. Ma la valutazione è rimasta invariata.

La battaglia non è affatto conclusa e contro Monsanto, oggi Bayer, sono state intentate più di 100 000 cause da agricoltori che si sono ammalati di linfoma non-Hodgkin in seguito all’uso del Roundup.

Quelle cause Monsanto/Bayer le sta perdendo. Nei processi già arrivati a sentenza, le giurie hanno stabilito che il Roundup e gli altri erbicidi a base di glifosate sono cancerogeni e che Monsanto ne ha nascosto i rischi per decenni. (Diciamo che è la abituale politica aziendale: anni fa Monsanto è stata condannata per avere fatto la stessa cosa per oltre 40 anni con i pcb, avvelenando intere cittadine della Louisiana e le foreste dalla California alla Svezia, prima di essere obbligata a cessarne la produzione.)

irrorazione-campi-con glifosato

L’Istituto Ramazzini di Bentivoglio (BO), un’eccellenza mondiale della ricerca indipendente (al cui lavoro si deve se in passato sono state dimostrate cancerogene sostanze come il cloruro di vinile, il benzene, l’aspartame e, di recente, le radiazioni della telefonia mobile) sta conducendo sui topi una sperimentazione specifica circa la cancerogenicità del glifosate. L’esperimento terminerà nel 2022, ma sono già stati pubblicati i risultati dello studio pilota della durata di tre mesi (vedi qui ): i topi trattati con il solo principio attivo, il glifosate, o con l’intero formulato, il Roundup, mostrano già dopo tre mesi alterazioni dello sviluppo sessuale, alterazioni dei nuclei cellulari e infine alterazioni della microflora intestinale, note da tempo per essere il preludio alle malattie croniche e degenerative più gravi, cancro compreso (vedi qui ).

A detta delle aziende produttrici, il glifosate era non tossico, di rapida degradazione e assolutamente innocuo per l’uomo e l’ambiente. Oggi emergono danni agli ecosistemi e alla salute umana. E non basta: la comparsa di sempre nuove resistenze nelle erbe infestanti non fa che accelerare la corsa a OGM resistenti a erbicidi sempre più nocivi. Un’inutile guerra chimica (però molto lucrosa per l’industria), che purtroppo ci vede nel bel mezzo dei campi di battaglia.

Danni dei mais resistenti agli insetti parassiti

Piuttosto speculare, e ugualmente desolante, è la storia dei mais GM modificati per produrre proteine insetticide. Ogni “cassetta genetica” inserita in queste piante contiene il solito promotore 35S del CaMV (virus del mosaico del cavolfiore) già descritto, più gli altri elementi funzionali, e inoltre uno o di solito più geni estratti da un batterio, il Bacillus thuringiensis o Bt, che vive nel terreno in prossimità delle radici, proteggendole dagli attacchi di molti insetti. I transgeni Bt (transgeni perché di origine batterica, quindi estranei alla pianta) controllano nel mais la produzione di due famiglie di proteine insetticide: le proteine Cry tossiche per le larve dei lepidotteri, e le proteine Vip tossiche soprattutto per i coleotteri.

Per le loro naturali proprietà insetticide, per l’alta specificità di specie- bersaglio e la scarsa tossicità per le specie non-target, queste proteine – che nel batterio si depositano in forma di cristalli – sono state usate largamente anche in agricoltura biologica. Questo fatto ha permesso alle corporation produttrici dei mais Bt di presentarli come sicuri per via della ‘lunga storia di uso sicuro’ delle proteine Bt. Ma, secondo quanto afferma l’importante lavoro, corredato da amplissima e solida bibliografia, pubblicato nel 2017 da Jonathan Latham et al. (vedi qui ), le aziende “dimenticano” di evidenziare alcuni aspetti importanti:

  • le piante ingegnerizzate producono le proteine Bt non come cristalli inerti, ma in forma solubile = attiva;
  • mentre i cristalli naturalmente prodotti dal batterio diventano attivi solo in seguito al contatto con specifici enzimi gastrici di particolari larve, le proteine Bt delle piante GM sono attive costantemente e in tutte le parti della pianta GM, dalle radici, al fusto, al polline, ai chicchi;
  • la sequenza di amminoacidi nelle proteine prodotte dalle piante ingegnerizzate NON è uguale a quella delle proteine Bt naturali, ma è spesso troncata o altrimenti modificata, oppure è l’unione sintetica di anche tre diverse proteine insetticide. Tutti questi tipi di trasformazioni tendono ad aumentare la tossicità di queste proteine e ad ampliare la gamma delle specie che sono in grado di colpire;
  • la tossicità delle proteine Cry e Vip delle piante Bt NON è stata MAI esaminata direttamente. Per gli esperimenti si utilizzano le proteine Cry prodotte da cellule batteriche assunte come equivalenti, nonostante sia ben noto che differiscono in misura importante dalle proteine Bt delle piante GM.

Quindi EPA, USDA e EFSA (l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare) hanno approvato e continuano ad approvare le varietà Bt in base a un concetto di “storia di uso sicuro” del tutto arbitrario, in quanto estende senza prove le proprietà delle proteine Bt naturali a quelle ingegnerizzate, in realtà mai testate nonostante siano diverse.

Molti lavori suggeriscono che l’essere solubili e le differenze strutturali (p.e. la forma troncata o l’unione sintetica di più proteine) rendano le proteine GM più tossiche.

Perciò, a quanto emerge dal lavoro di Latham et al., tutti i rischi collegati a tossicità, gamma delle specie sensibili, allergenicità e persistenza nell’ambiente delle proteine Bt geneticamente modificate, sono ancora da analizzare.

Ugualmente preoccupante è quanto emerge da vari lavori, e cioè che le proteine Bt diffuse nell’ambiente dai pollini e dai resti delle piante GM persistono a lungo nel terreno e nelle acque, danneggiando anche insetti utili e non-target. (Esemplare è il caso della farfalla monarca. In seguito all’introduzione negli Stati Uniti meridionali di estese piantagioni di mais e cotone Bt, è in atto da decenni una drastica riduzione delle popolazioni di questa meravigliosa farfalla, che si nutre su erbe inquinate dal polline delle piante Bt.) Dimostrati sono pure i danni agli ecosistemi acquatici.

farfalla-monarca

Farfalla monarca. Il 7 marzo 2018, la National Wildlife Federation americana ha pubblicato gli ultimi dati disponibili (vedi qui  ): le popolazioni di farfalla monarca nel sud-est degli Stati Uniti hanno subito negli ultimi 20 anni (quindi dopo l’introduzione di estese coltivazioni di piante Bt) una perdita complessiva del 90%.

Dato il quadro di sostanziale ignoranza degli effetti prodotti dalle piante Bt, è molto preoccupante il fatto che le proteine Cry siano state trovate nel sangue di donne canadesi in gravidanza e dei loro feti (vedi qui ). Quindi, contrariamente a quanto affermano le compagnie produttrici, le proteine Cry delle piante GM insetticide persistono nell’ambiente ben più di qualche giorno, anzi entrano nella catena alimentare umana con effetti che, dopo più di 20 anni, continuano a NON essere studiati.

L’escalation delle resistenze negli insetti           

Ciò che invece non manca sono gli studi scientifici che dimostrano i danni ecologici dei mais Bt dovuti all’emergere negli insetti di resistenze alle proteine Cry e Vip.

Particolarmente istruttivo è un lavoro del 2013 (vedi qui ). Si tratta di una rassegna di articoli scientifici, in cui si ricostruisce lo sviluppo “storico” di resistenze nei lepidotteri in seguito all’introduzione dei mais Bt in Sud Africa. Poiché questo schema di evoluzione delle resistenze si ripete ovunque, il Sud Africa è da considerarsi un caso esemplare da cui trarre lezione – a detta degli stessi autori.

parassita del mais

Busseola fusca

In questa regione l’insetto più dannoso per le coltivazioni di mais è il lepidottero Busseola fusca. “Livelli significativi di insetti sopravvissuti sopra il mais Bt furono trovati sin dalla prima stagione (1998) dopo l’introduzione del mais che produce la proteina Cry1Ab”. La quantità degli insetti resistenti era significativa anche sette anni più tardi e lo è tuttora.

Attualmente, le proteine Cry1Ab hanno perso ogni efficacia contro il lepidottero, tanto che i coltivatori, dopo aver speso più denaro per acquistare il seme GM, devono spenderne dell’altro per irrorare i campi con gli agrochimici tradizionali. La risposta delle corporation è stata l’introduzione nel 2011 di un mais GM con inserita la “cassetta” transgenica per produrre una proteina sintetica, Cry1A.105, che rappresenta l’unione di TRE diverse proteine Cry, in aggiunta alla “cassetta” precedente per la proteina Cry1Ab, per un totale di 4 proteine insetticide nella stessa pianta. Tuttavia, l’efficacia di questa superproteina sintetica è alquanto dubbia, data la sua fondamentale somiglianza con la proteina Cry1Ab a cui gli insetti sono già resistenti. Occorre ricordare, inoltre, che ogni eventuale efficacia insetticida non può che essere limitata nel tempo, dato il continuo insorgere di resistenze negli insetti. Conclusione: oggi il Sud Africa si trova a dover fronteggiare infestazioni di Busseola incontrollabili.

I coleotteri non sono da meno dei lepidotteri, quanto a sviluppare resistenze alle proteine insetticide delle piante Bt. Soprattutto non lo è la Diabrotica virgifera, il principale parassita dei campi di mais in Nord America ed Europa. In un lavoro scritto congiuntamente da ricercatori dell’EFSA e dell’USDA (vedi qui  ) , si afferma: “in 12 su 12 esperimenti si è osservato il rapido sviluppo di popolazioni di Diabrotica resistenti ai mais GM che producono proteine Bt per uccidere questo parassita”.

parassita del mais

Diabrotica virgifera

Il numero di altri lavori che denunciano il diffondersi in Diabrotica di resistenze alle proteine Bt è altissimo. Mi limiterò a citarne uno solo, pubblicato nel 2019 (vedi qui  ). Gli autori affermano: “L’ampia adozione delle colture Bt ha portato all’evoluzione di resistenza alle proteine Bt nella Diabrotica virgifera, uno dei più gravi parassiti del mais negli Stati Uniti centro- occidentali… Ad oggi, ci sono prove di evoluzione di resistenze contro tutte le tossine Bt finora utilizzate per controllare questo parassita”. E concludono: “La presenza di popolazioni di Diabrotica resistenti a tutte le proteine Bt disponibili minaccia l’utilità delle tecnologie transgeniche attuali e future nel controllo di questo parassita”.

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Mentre gli agricoltori americani sono sempre più esasperati e infuriati perché devono pagare sia per una tecnologia GM che non funziona sia per gli agrochimici con cui tentare di sostituirla, le corporation produttrici fanno vere orecchie da mercante. E ignorando tutti i richiami ai possibili danni all’ambiente e alla salute, continuano imperterrite ad avvitarsi nella spirale senza uscita della loro guerra agli insetti tramite piante GM sempre più cariche di insetticidi (fra parentesi, piante che poi diventano il nostro cibo o il cibo degli animali di cui ci nutriamo).

Ricordate il finale del film “War games”? Vedendo gli effetti sul mondo della guerra che ha scatenato, l’Intelligenza Artificiale conclude: “Strano gioco. L’unico modo per vincere è non giocare”. Chissà se sono conclusioni troppo al di là della portata di normali intelligenze umane.

LA CONTAMINAZIONE IN MESSICO

Anni di studi scientifici

Tornando al caso del mais messicano, che cosa avevano dunque trovato nel 2001 i ricercatori di Berkeley, Quist e Chapela? Nel DNA di alcune varietà native di mais, coltivate in località impervie sulla Sierra Juarez nello stato di Oaxaca nel Messico centro- meridionale, era stata individuata la presenza del promotore 35S del virus del mosaico del cavolfiore (CaMV) [come detto sopra, è l’elemento genetico essenziale per il funzionamento dei transgeni inseriti in un DNA estraneo]. Quello stesso anno, anche il Ministero dell’Ambiente messicano aveva trovato in 15 località degli stati di Oaxaca e Puebla varietà native di mais contaminate dai transgeni dei mais GM.

Lo scandalo ebbe risonanza mondiale, perché i sostenitori degli OGM da sempre insistevano che i rischi d’inquinamento genetico erano inesistenti. Ma soprattutto perché si trattava del Messico, il centro di origine e di evoluzione di Zea mays. C’era il rischio di perdere irrevocabilmente la straordinaria biodiversità del mais, sapientemente propagata per millenni.

L’origine dell’inquinamento restava misteriosa. Come era potuto accadere, nonostante la moratoria in vigore dal 1998 che metteva al bando la semina di mais GM? Tra le varie spiegazioni ipotizzate, la più probabile individuava la fonte dell’inquinamento nei mais importati dagli USA, compresi gli aiuti alimentari. Ogni anno, infatti, entrano in Messico dagli Stati Uniti milioni di tonnellate di mais che, non essendo separato all’origine per l’opposizione degli USA a distinguere tra mais naturali e GM, consistono ovviamente in una mistura dove la quota di mais transgenico era rilevante già nel 2000 (oggi arriva al 90%).

In Messico, le varietà native occupano il 70% dell’area coltivata a mais e il seme utilizzato è in genere autoprodotto. Ma in anni di particolari difficoltà può accadere che, esaurite le proprie scorte, i contadini integrino le loro sementi con ibridi commerciali acquistati sul mercato formale o con la granella della DICONSA, l’ente governativo che distribuisce gli aiuti alimentari in tutto il Messico.

A conferma di questa ipotesi, analizzando campioni di mais provenienti da un magazzino della DICONSA, Quist e Chapela trovarono anche in quel mais il DNA del promotore 35S, segno inequivocabile di contaminazione da mais transgenici.

Dal 2001 in poi, le forti preoccupazioni per la possibile contaminazione genetica dei mais nativi hanno stimolato numerosi studi da parte di gruppi di ricerca, agenzie governative e ONG, studi che all’inizio hanno dato risultati contrastanti.

Per esempio, il lavoro pubblicato nel 2005 dal gruppo di Sol Ortíz García (vedi qui ) non ha rilevato la presenza di transgeni nelle varietà coltivate sulla Sierra Juarez, né in altre località. Risultati opposti sono stati invece ottenuti, fra gli altri, dal gruppo di Alma Pineyro-Nelson nel 2009 (vedi qui   ). Mediante nuove tecniche di analisi molecolare, questi ricercatori hanno confermato la presenza, fin dal 2001, del promotore 35S nelle varietà di mais della Sierra Juarez. Gli autori suggeriscono che, una volta entrato nel DNA delle varietà native, il DNA transgenico vi persista e si diffonda.

Di recente, altri importanti lavori hanno provato la contaminazione genetica del mais nativo in varie zone del Messico. Fra questi vi è il lavoro del gruppo di Sarah AgapitoTenfen, pubblicato nel 2017 (vedi qui ), del quale parlerò più estesamente nella Parte III (vedi qui ). Molto importante è rilevare fin da adesso che questo studio ha confermato, anche nel 2017, la presenza di transgeni nel mais acquistabile sul mercato formale e distribuito dalla DICONSA.

  Varietà native e mais GM della prima e della seconda ondata

Data l’importanza del problema, molti ricercatori si sono rivolti a indagare con quale facilità e frequenza i transgeni possono entrare nel DNA delle razze autoctone di mais, e con quali effetti sulla biodiversità.

Un gruppo dell’Università della California, a Riverside (vedi qui ha studiato la formazione spontanea di ibridi mais/teosinte, molto frequenti. (Come si è detto nella Parte I, il teosinte è l’antenato selvatico del mais, e cresce ancora oggi abbondante nei campi messicani coltivati a mais.) In questo esperimento è stata utilizzata una varietà dl mais GM resistente al glifosate (l’erbicida Roundup®), prodotta da Monsanto. L’assetto genetico di questo mais era tale (eterozigosi) che il suo incrocio con una pianta di teosinte poteva dare origine a una progenie per metà resistente al glifosate e per metà sensibile all’erbicida, come sono tutte le piante spontanee di teosinte.

Le pianticelle nate nei campi sperimentali furono irrorate con glifosate. L’ipotesi era che quelle in grado di sopravvivere fossero geneticamente ibride, cioè avessero ereditato dal genitore GM il transgene per la resistenza all’erbicida. Per verificare l’ipotesi, le pianticelle sopravvissute al Roundup furono trapiantate in serra e fatte crescere fino alla maturità, in modo da verificare se avevano l’aspetto tipico degli ibridi mais/teosinte (Figura 2), e poi analizzarne il DNA.

Ibrido teosinte/mais GM

Il tipico aspetto di un ibrido mais/teosinte. A sinistra: l’infruttescenza del teosinte con pochi chicchi. A destra: la pannocchia del mais. Al centro: la pannocchia dell’ibrido, scarsamente organizzata e con poche file di chicchi. Fonte: N. C. Ellstrand et al. “Spontaneous hybridization between maize and teosinte”. J. Hered. Mar-Apr 2007; 98(2):183-7.

Questo esperimento ha dimostrato che anche il mais transgenico si ibrida facilmente con le differenti varietà di teosinte, in particolare con la parviglumis (detta “la madre del maíz”, come abbiamo visto nella Parte I), con la quale il tasso di ibridazione è molto elevato.

La stessa facilità di ibridazione = contaminazione vale con le varietà native di mais (vedi “impollinazione aperta”, nella Parte I). Quindi, per evitare la contaminazione da transgeni delle varietà autoctone di teosinte e di mais, occorre mettere in atto ogni misura per prevenire l’ibridazione con i mais GM.

Il mais GM utilizzato nell’esperimento appena descritto appartiene alla cosiddetta “prima ondata” di mais transgenici, costituita da varietà GM che portano inserito ex novo un singolo carattere (in quel caso era la resistenza al glifosate; in altre fra le prime varietà GM era la resistenza ai lepidotteri).

Ma a partire dai primi anni 2000, i mercati mondiali sono stati invasi da una seconda ondata di mais GM, costituita da varietà in cui sono stati inseriti molteplici caratteri simultaneamente. E così abbiamo varietà GM in cui sono state cumulate la resistenza a uno, due o anche tre gruppi di insetti parassiti; la resistenza a uno, due, tre o persino quattro diversi pesticidi chimici; varie modificazioni della composizione chimica del mais (p.e., produzione di bioetanolo; resistenza alla siccità; aumento dell’amminoacido lisina, e altre), il tutto nelle più svariate combinazioni entro una stessa pianta GM.

Quindi i mais GM della seconda ondata portano cumulati nel loro DNA geni estranei per la resistenza a erbicidi sempre più tossici (oltre all’iniziale glifosate, oggi abbiamo OGM resistenti anche a glufosinate, 2,4 D, Dicamba e sulfoniluree), e a una gamma sempre più ampia di insetti parassiti, quali lepidotteri come la piralide (Ostrinia nubilalis), la lafigma (Spodoptera frugiperda) e i fillofagi (Phyllophaga crinita), e coleotteri come la Diabrotica virgifera. Come si è detto sopra, a tutto ciò possono cumularsi anche geni che modificano certe proprietà chimiche del mais.

I possibli rischi di contaminazione genetica delle varietà native (maíz criollo) nel caso che il Messico apra alle semine di mais GM della seconda ondata, sono stati indagati da un gruppo di ricercatori dell’Instituto Nacional de Investigaciones Forestales, Agrícolas y Pecuarias e della Università autonoma di Città del Messico (vedi qui ).I mais GM resistenti ai parassiti, al pari di quelli resistenti ai pesticidi chimici, sono destinati ad avere una vita utile piuttosto limitata, dato l’insorgere in breve tempo di resistenze negli insetti e nelle erbe infestanti, come abbiamo detto sopra. Ma prima di essere con ogni probabilità sostituiti da nuovi OGM, questi mais avranno comunque il tempo di trasferire, per mezzo del polline, alle vicine piante di razze locali i transgeni oramai residenti nel loro DNA, transgeni divenuti sì obsoleti, ma pur sempre attivi.

Come affermano gli autori di questo lavoro, con l’introduzione di mais GM sempre nuovi, resa necessaria dall’obsolescenza dei caratteri già inseriti, si formerebbero altri ibridi, in cui i nuovi transgeni andrebbero ad aggiungersi a quelli già penetrati nel DNA dei mais autoctoni. Col susseguirsi delle generazioni di ibridi fra varietà native già contaminate e varietà GM, si avrebbe un progressivo accumulo di transgeni nel DNA dei mais nativi. Con effetti, molto probabilmente, destabilizzanti e deleteri per la biodiversità del mais.

Anche pochi ibridi iniziali possono influenzare l’evoluzione della specie. Non esiste, infatti, una soglia minima perché la contaminazione abbia un impatto significativo. Alla luce di ciò, e della dimostrata facilità di contaminazione da OGM, la raccomandazione finale degli autori di questo lavoro è che, per salvaguardare la biodiversità del mais messicano, è necessario applicare il principio di precauzione, vietando qualsiasi rilascio di mais GM in campo aperto.

campo di mais criollo

campo di mais nativo

Continua nella Parte III