Di Barry Commoner

Da Harper’s Magazine Febbraio 2002

Traduzione Daniela Conti

Barry Commoner (1917-2012) era senior scientist al Centro di Biologia dei Sistemi Naturali al Queens College, City University of New York, dove dirigeva il Critical Genetics Project. 

Barry Commoner ritratto

CREDIT: © ROBERT MAASS/CORBIS

Da scienza che osserva e descrive il mondo naturale, la biologia diventa uno strumento per cambiarlo

Una volta la biologia era considerata una disciplina languida, largamente descrittiva, una scienza passiva che si è accontentata, per gran parte della sua storia, soltanto di osservare il mondo naturale, anziché di cambiarlo. Non più. Oggi la biologia, armata del potere della genetica, ha sostituito la fisica nel ruolo di Scienza trainante del secolo e si erge pronta ad assumere poteri divini di creazione, evocando forme artificiali di vita piuttosto che elementi ancora sconosciuti e particelle subatomiche. I primi passi verso questa nuova Genesi sono stati estesamente reclamizzati attraverso la stampa. Non molto tempo fa gli scienziati scozzesi hanno sbalordito il mondo con Dolly 1, la pecora senza padre clonata direttamente dalle cellule di sua madre; queste tecniche ora vengono applicate, senza successo, a cellule umane. Recentemente è nata ANDi2, una fotogenica scimmietta rhesus che porta il gene di una medusa luminescente. I maiali ora portano un gene per l’ormone della crescita bovino e mostrano un significativo aumento di peso, una maggiore efficienza nutrizionale e una minore quantità di grasso3. La maggior parte delle piante di soia coltivate negli Stati Uniti è stata geneticamente modificata per sopravvivere all’applicazione di potenti diserbanti. Le piante di mais ora contengono un gene batterico che produce una proteina insetticida che le rende velenose per i parassiti. 4

 

I campanelli d’allarme vengono ignorati

I nostri scienziati ed imprenditori scientifici (due etichette sempre più intercambiabili) ci assicurano che queste prodezze della capacità tecnologica, benché straordinarie e complesse, nondimeno sono sicure e affidabili. Ci viene detto che tutto è sotto controllo. Per convenienza vengono ignorati, dimenticati o in alcuni casi semplicemente passati sotto silenzio,  i campanelli d’allarme, i difetti e gli aborti spontanei. La maggior parte dei cloni non riesce ad arrivare al termine dello sviluppo prima della nascita o subito dopo, e persino i cloni apparentemente normali soffrono di malformazioni al rene o al cervello.5 ANDi, perversamente, si ostina a non voler brillare come una medusa. I maiali geneticamente modificati hanno un’alta incidenza di ulcere gastriche, artrite, cardiomegalia, dermatiti e malattie renali. Nonostante le assicurazioni delle industrie biotecnologiche che l’unica alterazione della soia geneticamente modificata consiste nella presenza del gene alieno, è un dato di fatto che il sistema genetico di queste piante è stato alterato in modo non voluto, con conseguenze potenzialmente pericolose.6 L’elenco dei malfunzionamenti trova scarsa attenzione; le compagnie biotecnologiche non hanno l’abitudine di pubblicizzare gli studi che mettono in dubbio l’efficacia dei loro prodotti miracolosi, o che suggeriscono la presenza di un serpente nell’Eden del biotech.

È probabile che questi insuccessi siano archiviati come gli inevitabili errori che caratterizzano il progresso scientifico. Ma dietro di essi è in agguato un fallimento più profondo. Tutte le meraviglie della scienza genetica si fondano sulla scoperta della doppia elica del DNA – compiuta nel 1953 da Francis Crick e James Watson – e discendono dalla premessa che questa struttura molecolare sia l’agente esclusivo dell’eredità in tutti i viventi: nel regno della genetica molecolare, il gene è il monarca assoluto.

La caduta del “dogma centrale”

Nota ai biologi molecolari come il “dogma centrale“, questa premessa assume che il genoma di un organismo – la sua completa dotazione di geni – dovrebbe dare conto pienamente dell’intero complesso delle sue caratteristiche ereditarie.7 Ma quella premessa, sfortunatamente, è falsa. Sottoposta a verifica tra il 1990 e il 2001, in una delle più grandi e più pubblicizzate imprese scientifiche del nostro tempo, il Progetto Genoma Umano, questa teoria è crollata sotto il peso dei fatti. Ci sono troppo pochi geni umani per dare conto della complessità dei nostri tratti ereditari o delle enormi differenze ereditarie esistenti, ad esempio, tra piante e persone. Sotto ogni ragionevole punto di vista, la scoperta (pubblicata nel febbraio dell’anno scorso) ha segnato la caduta del dogma centrale, e con essa sono caduti anche i fondamenti scientifici dell’ingegneria genetica e ogni supposta validità della pretesa, ampiamente reclamizzata dall’industria biotecnologica, che i suoi metodi per modificare geneticamente le colture siano “specifici, precisi, e prevedibili”8 e perciò sicuri. In breve, l’esito più eclatante del Progetto Genoma Umano costato 3 miliardi di dollari è, a tutt’oggi, la confutazione dei suoi stessi fondamenti scientifici.

Linearità del dogma, del DNA e del pensiero biotech

Dal momento in cui quarantaquattro anni fa Crick lo propose per la prima volta, il dogma centrale è arrivato a dominare la ricerca biomedica. Semplice, elegante e concisa, questa formulazione cerca di ridurre l’eredità – una proprietà che solo gli esseri viventi possiedono – alle dimensioni molecolari: l’agente molecolare dell’eredità è il DNA, l’acido desossiribonucleico, una molecola molto lunga e lineare fittamente spiralizzata all’interno del nucleo di ogni cellula. Il DNA è fatto di quattro diversi tipi di nucleotidi, disposti in ogni gene in un particolare ordine lineare o sequenza. I segmenti di DNA contengono i geni che, attraverso una serie di processi molecolari, danno origine a tutti i nostri tratti ereditari. Guidato dalla teoria di Crick, il Progetto Genoma Umano fu avviato con l’intenzione di individuare ed enumerare tutti i geni del corpo umano, identificando l’intera sequenza dei tre miliardi di nucleotidi che compongono il nostro DNA. Nel 1990, James Watson definì il Progetto Genoma Umano come “l’ultima, definitiva descrizione della vita.” E produrrà, egli affermava, quelle informazioni “che determinano se siamo una mosca, una carota, o un uomo.” Walter Gilbert, uno dei primi sostenitori del progetto, osservò, con una frase divenuta famosa, che i tre miliardi di nucleotidi del DNA umano potrebbero facilmente essere contenuti in un compact disc. E, indicando un CD di questo tipo, chiunque potrebbe dire: “Ecco qua un essere umano; sono io!”9 Il presidente Bill Clinton ha definito il genoma umano come “la lingua nella quale Dio creò la vita.”10 Come poteva la minuta dissezione del DNA umano in una sequenza di tre miliardi di nucleotidi divenire il supporto di così iperboliche pretese? La teoria di Crick cerca di dare una chiara, precisa, risposta a questa domanda, ipotizzando una catena di processi molecolari che conducono da un singolo gene a un particolare carattere ereditario. Il potere esplicativo della teoria è basato su una proposizione stravagante: che i geni abbiano il controllo unico, assoluto ed universale sulla totalità dei processi dell’eredità, in tutte le forme di vita.

Secondo il ragionamento di Crick, per controllare l’eredità i geni devono governare la sintesi delle proteine, dato che sono le proteine a formare le strutture interne della cellula e, come nel caso degli enzimi, a catalizzare gli eventi chimici che producono specifici caratteri ereditari. La capacità del DNA di governare la sintesi delle proteine è facilitata dalla somiglianza delle loro strutture: DNA e proteine sono infatti molecole lineari composte di specifiche sequenze di subunità. Un particolare gene si distingue da un altro per l’ordine lineare (la sequenza) con cui i quattro nucleotidi compaiono nel DNA. Analogamente, una proteina si distingue da un’altra per la specifica sequenza dei venti tipi diversi di amminoacidi dei quali è composta. I quattro tipi di nucleotidi possono essere organizzati in modo da generare molte possibili sequenze diverse, ed è appunto la particolare composizione di un gene a rappresentare la sua “informazione genetica”, un po’ come accade nel poker, dove l’ordine delle carte dice al giocatore se fare una forte scommessa oppure lasciare il gioco perché ha in mano solo un set insignificante di carte che si dispongono totalmente a caso.

L’”ipotesi della sequenza” di Crick collega elegantemente il gene alla proteina: “la sequenza dei nucleotidi in un gene è un semplice codice per la sequenza degli amminoacidi in una specifica proteina.”11 Questa frase riassume in modo estremamente sintetico una serie di processi molecolari ben documentati, che trascrivono la sequenza dei nucleotidi del DNA in una sequenza complementare di acido ribonucleico (RNA), il quale, a sua volta, trasferisce il codice del gene al luogo di formazione della proteina, dove determina l’ordine sequenziale in cui i diversi amminoacidi si uniscono a formare la proteina. Ne consegue che in ogni essere vivente ci dovrebbe essere una corrispondenza uno-a-uno tra il numero totale dei geni e il numero totale delle proteine. L’intero insieme dei geni umani – il genoma – deve quindi rappresentare tutta l’eredità di una persona, ovvero tutto ciò che distingue una persona da una mosca, o Walter Gilbert da chiunque altro. Infine, essendo il DNA composto degli stessi quattro nucleotidi in tutti gli esseri viventi, il codice genetico è universale, il che vuole dire che un gene dovrebbe essere capace di produrre la sua particolare proteina ovunque gli capiti di trovarsi, anche in una specie diversa.

Barry Commoner ritrattoLa teoria di Crick include una seconda dottrina che egli stesso definì il “dogma centrale” (sebbene ora questo termine venga in genere usato per indicare l’intera teoria). L’ipotesi è una tipica affermazione da Crick: semplice, precisa e magistrale. “Una volta che l’informazione (sequenziale) è stata trasmessa alla proteina, non può uscirne di nuovo.”12 Ciò vuol dire che l’informazione genetica ha origine nella sequenza nucleotidica del DNA e termina, immutata, nella sequenza amminoacidica della proteina. Questo postulato è cruciale per il potere esplicativo della teoria, perché dota il gene di completo controllo sull’identità della proteina e sul carattere ereditario a cui la proteina dà forma. Per sottolineare l’importanza di questo tabù genetico, Crick scommise su di esso il futuro dell’intera impresa, asserendo che “se si scoprisse anche uno solo fra i tanti tipi di cellule attualmente esistenti” in cui l’informazione genetica passa da una proteina a un acido nucleico o da proteina a proteina, ciò “sconvolgerebbe le basi concettuali di tutta la biologia molecolare.”13

Crick era consapevole della fragilità della sua scommessa, poiché era noto che nelle cellule viventi le proteine hanno contatti promiscui con molte altre proteine e con molecole di DNA e di RNA. La sua insistenza sul fatto che queste interazioni sono geneticamente caste era finalizzata a proteggere il messaggio genetico del DNA – la sequenza dei nucleotidi – da intrusi molecolari che ne possano cambiare la sequenza, o aggiungervi nuovi elementi durante i vari passaggi con cui  l’informazione viene trasferita dal gene alla proteina, distruggendo così l’elegante semplicità della teoria. Nel febbraio scorso, l’azzardata scommessa di Crick ha subìto un rovescio spettacolare. Sulle riviste Nature e Science, in conferenze stampa unificate e in varie apparizioni televisive, i due gruppi di ricerca che hanno portato a termine il Progetto Genoma hanno riferito i propri risultati. La scoperta più importante era del tutto “inaspettata”.14 Invece dei 100 000 o più geni previsti in base al numero stimato delle proteine umane, i geni sono solamente 30 000 circa. In base a questa misurazione, gli esseri umani hanno all’incirca altrettanti geni di un’erbaccia (la senape, la quale ha 26 000 geni) e la loro dotazione genetica è circa il doppio di quella di un moscerino o di un verme –difficile pensare che possa costituire la base adeguata per distinguere fra “una mosca, una carota, o un uomo.” Al punto che un lettore poco attento di CD genomici potrebbe facilmente scambiare Walter Gilbert per un topo, visto che i geni di questo animale sono per il 99% gli stessi che si trovano nel genoma umano.15

Questi sorprendenti risultati hanno contraddetto la premessa scientifica sulla quale era stato intrapreso il progetto Genoma Umano e hanno detronizzato la sua teoria fondante, il dogma centrale. Dopo tutto, se il numero dei geni umani è troppo basso per accordarsi con il numero delle proteine e dei numerosi caratteri ereditari che da esse procedono, e non può spiegare l’enorme differenza ereditaria tra un’erbaccia e una persona, ci deve essere molto più di quello che i geni, da soli, possono dirci per arrivare davvero “all’ultima, definitiva descrizione della vita”.

Né gli scienziati né i giornalisti sono riusciti a cogliere ciò che è veramente accaduto. La scoperta che il genoma umano non è molto diverso da quello di un verme ha portato il Dr. Eric Lander, uno dei leader del Progetto, a dichiarare che l’umanità dovrà imparare “una lezione di umiltà.”17 Sul New York Times, Nicholas Wade si è limitato ad osservare che i risultati sorprendenti del progetto avranno un “impatto sull’orgoglio umano” e che “l’autostima degli esseri umani potrà subire altri colpi” dalle future analisi del genoma, dalle quali già ora risulta che i geni dei topi e degli uomini sono molto simili.16

I rapporti scientifici del progetto hanno offerto ben poche spiegazioni per il numero di geni tanto più basso del previsto. Una delle possibili spiegazioni del perché il conto dei geni è “così discorde con le nostre previsioni” è stata fornita su Science lo scorso febbraio, con queste laconiche parole: “circa 4096 geni umani subiscono lo splicing alternativo.”18 Se intesa correttamente, questa dichiarazione sottotono, quasi misteriosa, fa piena giustizia della tremenda profezia di Crick: essa “sconvolge le basi concettuali dell’intera biologia molecolare” e mina la validità scientifica della sua applicazione all’ingegneria genetica.

Lo splicing alternativo è una straordinaria deviazione dal disegno ordinato del dogma centrale, nel quale la particolare sequenza nucleotidica di un gene codifica la sequenza amminoacidica di una particolare proteina. Secondo l’ipotesi formulata da Crick, la sequenza dei nucleotidi di un gene (la sua “informazione genetica”) si trasmette, alterata nella forma ma non nel contenuto, attraverso intermediari di RNA, alla sequenza di amminoacidi distintiva di una proteina. Nello splicing alternativo, però, l’originale sequenza nucleotidica del gene viene divisa in frammenti, che poi sono ricombinati in modi diversi così da codificare una molteplicità di proteine, ognuna diversa dalle altre nella sequenza amminoacidica e diversa anche dalla sequenza che il gene originale codificherebbe, se rimanesse intatto.

Gli eventi molecolari che effettuano questo rimescolamento genetico si concentrano in una particolare fase del processo dell’informazione DNA-RNA-proteina. Lo splicing si verifica nel momento in cui la sequenza nucleotidica del gene viene trasferita al successivo corriere genetico: l’RNA messaggero. Un gruppo specializzato di 50-60 proteine, insieme con cinque piccole molecole di RNA (un complesso noto come “spliceosoma”) si assembla in particolari posizioni lungo la molecola del messaggero, e a questo livello taglia via certi segmenti del messaggero stesso. Alcuni di questi frammenti vengono poi uniti tra loro in un gran numero di combinazioni alternative, le quali vengono così ad avere sequenze nucleotidiche differenti da quella del gene originale. Questi numerosi, ridisegnati, RNA messaggeri governano la produzione di un numero altrettanto grande di proteine che differiscono rispetto alla sequenza amminoacidica, quindi rispetto ai caratteri ereditari a cui danno origine. Per fare un esempio, quando la parola TIME (tempo) viene riarrangiata, dal vocabolo originale si possono ottenere altre tre unità alternative d’informazione: MITE (spicciolo), EMIT (emettere), ITEM (articolo). La parola originale (la sequenza nucleotidica del messaggero non tagliato) è senz’altro essenziale per il processo, ma altrettanto lo è l’agente che esegue il riarrangiamento (lo spliceosoma).19

Lo splicing alternativo può avere un impatto straordinario sul rapporto geni/proteine. Oggi sappiamo che un singolo gene, che originariamente si riteneva codificasse una sola proteina presente nelle cellule dell’orecchio interno dei polli (e degli esseri umani), genera 576 proteine diverse, differenti nella loro sequenza amminoacidica.20 Attualmente il record per il numero di proteine diverse prodotte da un unico gene mediante lo splicing alternativo è detenuto da un gene di Drosophila, il quale genera fino a 38016 differenti molecole proteiche.21

Lo splicing alternativo ha perciò un impatto devastante sulla teoria di Crick: rompe il supposto isolamento del sistema molecolare che trasferisce l’informazione genetica da un solo gene a una sola proteina. Si può dire che lo splicing alternativo, riarrangiando la sequenza nucleotidica del gene in una molteplicità di nuove sequenze di RNA messaggero, ognuna delle quali è diversa dal messaggero originale non tagliato, generi nuova informazione genetica. Alcune delle proteine e degli RNA che compongono lo spliceosoma hanno una speciale affinità per certi siti e, legandosi ad essi, formano un catalizzatore attivo che taglia l’RNA messaggero per poi riunire i frammenti risultanti. Le proteine dello spliceosoma quindi contribuiscono all’informazione genetica aggiuntiva a cui lo splicing alternativo dà origine. Ma questa conclusione contrasta con la seconda ipotesi di Crick, cioè che le proteine non possono trasmettere informazione genetica a un acido nucleico (in questo caso, all’RNA messaggero), e in questo modo distrugge l’ elegante logica della doppietta di ipotesi genetiche, strettamente interconnesse, formulate da Crick.22

e’ la cellula vivente, non la molecola del DNA da sola, ad effettuare l’esatta duplicazione del DNA

La scoperta dello splicing alternativo contraddice drasticamente anche i presupposti che hanno motivato il Progetto Genoma Umano. Essa annulla il predominio esclusivo del gene sui processi molecolari dell’eredità, e dimostra la falsità dell’assunto che contando i geni sia possibile specificare l’insieme delle proteine che definiscono la sfera dell’eredità umana. L’effetto di un gene sull’eredità non può quindi essere predetto semplicemente in base alla sua sequenza nucleotidica – la determinazione della quale è uno degli scopi principali del Progetto Genoma Umano. Forse è per questo che il ruolo cruciale dello splicing alternativo sembra essere stato ignorato nella pianificazione del progetto ed è stato lasciato in ombra dalla maniera astuta con cui sono stati riferiti i suoi risultati principali. Anche se i rapporti del Progetto Genoma non lo dicono, lo splicing alternativo fu scoperto molto prima che il progetto fosse anche solo concepito: la scoperta avvenne infatti nel 1978, studiando la replicazione dei virus,23 poi nel 1981 fu trovato anche nelle cellule umane.24  Nel 1989, quando il Progetto Genoma Umano era ancora materia di dibattito fra i biologi molecolari, i suoi paladini erano certamente al corrente degli oltre 200 lavori scientifici già pubblicati sullo splicing alternativo di geni umani.25 Quindi, il fatto che il numero dei geni umani potesse essere inferiore alle attese avrebbe potuto (anzi, dovuto) essere previsto. È difficile evitare di giungere alla conclusione (per quanto fastidiosa possa essere) che coloro che hanno ideato il Progetto Genoma sapessero in anticipo che c’era da attendersi una grossa differenza tra il numero dei geni e quello delle proteine nel genoma umano, e che quel progetto da 3 miliardi di dollari non potesse essere giustificato dalla stravagante pretesa che il genoma – o forse Dio che ci parla attraverso di esso – ci potesse dire chi siamo.26

Lo splicing alternativo non è l’unica delle scoperte avvenute nel corso degli ultimi quaranta anni ad avere contraddetto i precetti fondamentali del dogma centrale. Altre ricerche hanno teso ad erodere la centralità stessa della doppia elica, quest’icona ubiquitaria della teoria. Nel lavoro originale che descrive la loro scoperta del DNA, Watson e Crick commentano che la struttura dell’elica “suggerisce immediatamente un possibile meccanismo per la copia del materiale genetico.” Tale autoduplicazione è la caratteristica cruciale della vita e nell’attribuirla al DNA Watson e Crick concludevano, un po’ prematuramente, di avere scoperto la magica chiave molecolare della vita.27 La replicazione biologica comprende l’esatta duplicazione del DNA, ma il processo è portato a termine dalla cellula vivente e non dalla molecola del DNA da sola. Nello sviluppo di una persona a partire da un singolo uovo fecondato, la cellula uovo e la moltitudine di cellule successive si dividono in due. Ognuna di queste divisioni è preceduta da un raddoppiamento del DNA cellulare; due nuovi filamenti di DNA sono prodotti legando i nucleotidi necessari (liberamente disponibili entro la cellula), nell’ordine corretto, a ciascuno dei due filamenti che compongono la doppia elica. Mentre la singola cellula dell’uovo fecondato si sviluppa in un individuo adulto, il genoma si replica molti miliardi di volte e, nel corso di questo processo, la sua esatta sequenza di tre miliardi di nucleotidi si mantiene con straordinaria fedeltà.28 La percentuale di errore – ovvero, l’inserimento nella sequenza del DNA neosintetizzato di un nucleotide scorretto – è approssimativamente di 1 su 10 miliardi di nucleotidi. Ma da solo il DNA è incapace di replicarsi in modo così fedele; in un esperimento in provetta, un filamento di DNA in presenza di una mistura dei suoi quattro nucleotidi costituenti ne ordina in modo scorretto approssimativamente 1 ogni 100. D’altra parte quando vengono aggiunti alla provetta anche le opportune proteine enzimatiche, la fedeltà con la quale i nucleotidi vengono incorporati nel filamento di DNA neosintetizzato migliora notevolmente, riducendo la percentuale di errore a 1 su 10 milioni. Questo rimanente tasso di errore viene infine ridotto a 1 su 10 miliardi da un set di enzimi di “riparazione” (anch’essi proteine) che scoprono nel DNA sintetizzato ex novo, e rimuovono dalla sua molecola, i nucleotidi malappaiati.29

L’informazione genetica non deriva dal solo DNA, ma scaturisce dalla sua essenziale collaborazione con proteine enzimatiche

Quindi, nella cellula vivente, il codice inscritto nella sequenza nucleotidica del gene può essere replicato fedelmente soltanto perché un insieme di proteine specializzate interviene a prevenire la maggior parte degli errori (che il DNA da solo tenderebbe a fare) e a riparare gli errori che tuttavia rimangono. Inoltre, è noto fin dagli anni ’60 che gli enzimi che sintetizzano il DNA ne influenzano la sequenza nucleotidica. In questo senso, l’informazione genetica non scaturisce dal DNA soltanto, ma dalla sua essenziale collaborazione con proteine enzimatiche – in contraddizione col precetto del dogma centrale, secondo il quale l’eredità è governata unicamente dall’autoreplicazione della doppia elica.

Un altro fatto importante in contraddizione con il dogma centrale è che, per divenire biochimicamente attiva e produrre il carattere ereditario, la proteina neosintetizzata, una molecola allungata a forma di nastro, deve ripiegarsi ordinatamente in una struttura a globo. Gli eventi biochimici che danno origine ai caratteri genetici – per esempio, l’azione enzimatica che sintetizza un particolare pigmento per il colore dell’occhio – avvengono in siti specifici sulla superficie esterna della struttura tridimensionale della proteina, superficie che è generata dal particolare modo in cui la molecola si ripiega. Per preservare la semplicità del dogma centrale, Crick fu costretto a presumere – senza alcuna prova di supporto – che la proteina nascente (una molecola lineare) si ripiega sempre nel modo corretto, una volta determinata la sua sequenza amminoacidica. Negli anni ’80, comunque, fu scoperto che alcune proteine nascenti hanno molte probabilità di non ripiegarsi correttamente – e perciò di rimanere biochimicamente inattive – a meno che non entrino in contatto con un tipo speciale di proteine “chaperon”, che le ripiegano nella struttura corretta e attiva.

L’importanza delle proteine chaperon è stata sottolineata in anni recenti dalle ricerche sulle malattie degenerative del cervello causate da “prioni”, ricerche dalle quali sono emerse alcune delle prove più inquietanti del fatto che il dogma centrale è pericolosamente sbagliato.30

La teoria di Crick sostiene che la replicazione biologica, essenziale per la capacità di un organismo di infettare un altro organismo, non possa verificarsi in assenza di un acido nucleico. Eppure, quando lo scrapie (la prima di queste malattie ad essere scoperta) fu analizzato biochimicamente, non si trovò nessun acido nucleico (né DNA né RNA) nel materiale infettivo che trasmetteva la malattia. Negli anni ‘80, Stanley Prusiner confermò che gli agenti infettivi che provocano lo scrapie, la malattia della mucca pazza ed altre malattie umane simili, rare ma invariabilmente fatali, sono in realtà proteine prive di acido nucleico (chiamate da  Prusiner prioni), le quali si replicano in un modo del tutto insolito. Invadendo il cervello, il prione incontra una normale proteina dei tessuti cerebrali, che poi si ripiega in modo da assumere la forma tridimensionale caratteristica del prione. La proteina così ripiegata diviene a sua volta infettiva e, agendo su un’altra molecola proteica normale, avvia una reazione a catena che propaga la malattia fino al suo esito fatale.31

Il comportamento insolito del prione solleva importanti domande sul nesso che esiste tra la sequenza amminoacidica di una proteina e la sua struttura ripiegata, biochimicamente attiva. Crick ha presunto che la struttura attiva di una proteina sia automaticamente determinata dalla sua sequenza amminoacidica (la quale è, dopo tutto, il segno della sua specificità genetica), per cui due proteine con la stessa sequenza dovrebbero essere identiche nella loro attività. Il prione viola questa regola. In una pecora infettata dallo scrapie, il prione e la proteina normale del cervello che si ripiega diversamente in seguito all’infezione hanno la stessa sequenza amminoacidica, ma una è una normale componente cellulare e l’altra è un agente infettivo fatale. Ciò suggerisce che la configurazione ripiegata della proteina sia, in certa misura, indipendente della sua sequenza amminoacidica, e che essa debba dunque essere decisa, in parte, da qualcosa di diverso dal gene che ha governato la sintesi di quella sequenza. E siccome la forma tridimensionale della proteina prionica è dotata d’informazione genetica trasmissibile, ciò viola anche un altro fondamentale precetto di Crick: l’impossibilità del passaggio di informazione genetica da una proteina a un’altra.* Quindi, ciò che oggi sappiamo del prione è un oscuro avvertimento che nella genetica molecolare sono al lavoro processi che le limitazioni concettuali del dogma centrale cercano di rimuovere e di tenere fuori dalla vista, e che tuttavia possono condurre a malattie fatali.**

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Note a piè pagina:

* Anche se Crick localizza l’informazione genetica di una proteina nella sua sequenza amminoacidica, essa va rintracciata anche nella sua struttura ripiegata e tridimensionale, alla superficie della quale ha luogo l’attività biochimica estremamente specifica che genera il carattere ereditario.

** Nel 1997, quando Prusiner fu insignito del Premio Nobel, molti scienziati denunciarono pubblicamente questa decisione sostenendo che il prione, benché sia un agente infettivo, tuttavia è una proteina priva di acido nucleico; questo fatto, in aperta contraddizione col dogma centrale, era troppo controverso per giustificare l’attribuzione del premio. Tale distorsione concettuale non solo ha ostacolato il progresso scientifico, ma ha portato anche gravi danni alla salute umana. Sebbene i risultati di Prusiner spiegassero perché la struttura del prione fosse resistente alle procedure di sterilizzazione convenzionali, in Gran Bretagna si è fatto lo stesso affidamento su tali procedure per lottare contro la malattia della mucca pazza, con risultati fatali.

Quindi a metà degli anni ‘80, molto prima che il Progetto Genoma Umano da 3 miliardi di dollari venisse avviato, e ben prima che piante geneticamente modificate cominciassero ad apparire nei nostri campi, una serie di processi basati sulle proteine avevano già iniziato a irrompere sulla scena, mettendo in discussione il predominio esclusivo del DNA. Una schiera di proteine enzimatiche deve riparare i troppo frequenti errori nella replicazione del DNA e nella trasmissione del codice genetico alle proteine. Certe proteine, assemblate negli spliceosomi, ristrutturano, mescolandoli, i trascritti di RNA e in questo modo creano centinaia e persino migliaia di proteine diverse a partire da un solo gene. Una famiglia di chaperon, proteine che facilitano il ripiegamento corretto (e perciò l’attività biochimica) di altre proteine neosintetizzate, è parte essenziale del processo che dal gene porta alla proteina. Sotto ogni ragionevole punto di vista, questi risultati contraddicono il principio cardinale del dogma centrale: che un gene di DNA governa in modo esclusivo i processi molecolari che generano un particolare carattere ereditario. Il gene chiaramente esercita un’influenza importante sull’eredità, ma non è solo nell’esercitare tale funzione e agisce in collaborazione con una moltitudine di processi basati sulle proteine, i quali prevengono la formazione di sequenze scorrette ed eventualmente le riparano, trasformano la proteina nascente nella sua forma ripiegata, attiva, ed aggiungono informazione genetica cruciale che va ben al di là di quella che scaturisce dal gene stesso. L’esito finale è che nessun gene, da solo, costituisce l’unica fonte dell’informazione genetica per una proteina, e quindi per un carattere ereditario.

La credibilità del Progetto Genoma Umano non è l’unica vittima della caparbia resistenza della comunità scientifica ad accettare risultati sperimentali che contraddicono il dogma centrale. E non è nemmeno la vittima più importante. Il fatto che un singolo gene può generare una molteplicità di proteine distrugge i fondamenti teoretici di un’industria da molti miliardi di dollari, quella dell’ingegneria genetica delle piante alimentari. L’ingegneria genetica presume, senza alcuna prova sperimentale adeguata, che un gene batterico per una proteina insetticida, trasferito ad esempio in una pianta di mais, produrrà precisamente quella proteina e null’altro. Ma in quell’ambiente genetico alieno, lo splicing alternativo del gene batterico potrebbe generare molteplici varianti di quella proteina – o persino proteine che hanno una scarsa relazione strutturale con quella originale – con effetti imprevedibili sugli ecosistemi e sulla salute umana.

Il ritardo nel detronizzare l’onnipotente gene ha portato negli anni ’90 a un’invasione massiccia dell’agricoltura americana da parte dell’ingegneria genetica, sebbene la sua giustificazione scientifica fosse già compromessa da una decina d’anni, o anche di più. Ciononostante, ignorando il fatto profondo che in natura il normale scambio di materiale genetico avviene esclusivamente all’interno di una stessa specie, i dirigenti dell’industria biotech si sono vantati ripetutamente che, in confronto ai processi naturali, il trasferimento di un gene da una specie a un’altra non solo è normale, ma è anche più specifico, preciso e prevedibile. Soltanto nell’ultimo quinquennio queste varietà transgeniche hanno occupato negli USA oltre il 68% della superficie coltivata a soia, il 26% della superficie coltivata a mais e più del 69% di quella coltivata a cotone.32 Che l’industria biotech sia guidata dal dogma centrale è stato reso esplicito da Ralph W.F. Hardy, presidente del National Agricultural Biotechnology Council ed ex direttore della Divisione Scienze della Vita alla DuPont, uno dei maggiori produttori di semi geneticamente modificati. Nel 1999, in una testimonianza resa davanti al Senato, Hardy ha così descritto succintamente la teoria che guida quest’industria: “Il DNA (il “top management”, i quadri dirigenti) dirige la sintesi dell’RNA (il “middle management”, i quadri intermedi), che dirige la sintesi delle proteine (i “workers”, i lavoratori).”33 Il risultato finale del trasferire un gene batterico in una pianta di mais è, secondo le attese, altrettanto prevedibile del risultato dell’organizzazione aziendale: quello che i lavoratori fanno sarà esattamente determinato da quello che i dirigenti dicono loro di fare. Questa versione Reaganiana del dogma centrale è il fondamento scientifico in base al quale si coltivano ogni anno miliardi di piante transgeniche di soia, mais e cotone, con l’attesa che il particolare gene alieno in ognuna di loro sarà replicato fedelmente in ciascuna dei miliardi di divisioni cellulari che hanno luogo durante lo sviluppo di ogni pianta; e che in ciascuna delle cellule risultanti il gene alieno codificherà solamente una proteina che ha esattamente la sequenza amminoacidica codificata dal gene nell’organismo originale; e che nel corso di tutta questa saga biologica, il patrimonio genetico naturale della pianta continuerà ad essere replicato correttamente, nonostante la presenza del gene alieno, senza che si verifichino cambiamenti anormali della sua composizione. In una pianta normale, non geneticamente modificata, l’affidabilità di questo naturale processo genetico è il risultato della compatibilità tra il suo sistema di geni e il suo ugualmente necessario sistema di proteine. La relazione armoniosa tra i due sistemi si sviluppa nel corso della loro coabitazione entro la stessa specie per periodi evolutivi molto lunghi, durante i quali la selezione naturale elimina le varianti incompatibili. In altri termini, all’interno di una specie l’affidabilità dell’esito di questi complessi processi molecolari da cui traggono origine i caratteri ereditari è garantita dai test avvenuti in natura per molte migliaia di anni.

Ma in una pianta transgenica, il gene batterico alieno trapiantato deve interagire correttamente con il sistema delle proteine già presente nella pianta. E’ noto che le piante evolutivamente superiori, come il mais, la soia e il cotone, possiedono proteine che riparano gli errori nel DNA34, che effettuano lo splicing alternativo dell’RNA messaggero e quindi producono una molteplicità di proteine diverse da un solo gene35, e proteine chaperon che ripiegano in modo corretto altre proteine nascenti.36  Ma la storia evolutiva dei sistemi della pianta è molto diversa da quella del gene batterico. Di conseguenza, nella pianta transgenica l’interdipendenza armoniosa tra il gene alieno e i sistemi di proteine del nuovo ospite probabilmente risulterà alterata, in modo impreciso ed intrinsecamente imprevedibile. In pratica, queste alterazioni sono rivelate dai numerosi fallimenti sperimentali durante le procedure che portano alla creazione di un organismo transgenico, e dagli inattesi cambiamenti genetici che si verificano anche dopo che il gene è stato trasferito con successo.37

Estremamente allarmanti sono le recenti evidenze che in una pianta GM molto diffusa – la soia che contiene un gene alieno per la resistenza a un diserbante – il genoma della pianta transgenica si è alterato in modo del tutto incontrollato. La Monsanto ha ammesso nel 2000 che la sua soia contiene dei frammenti addizionali del gene trasferito, ciononostante ha concluso che “non ci si aspetta, e non è stata osservata, la produzione di nessuna nuova proteina.”38 Un anno più tardi un team di ricercatori belgi ha scoperto che un segmento del DNA originale della pianta si è modificato. E questo segmento di DNA anormale è abbastanza lungo da poter produrre una nuova proteina, potenzialmente dannosa.39

Una possibile spiegazione di come abbia potuto formarsi questo misterioso DNA, è stata suggerita da un recente studio che ha dimostrato come, in alcune piante che portano un gene batterico, gli enzimi della pianta che correggono gli errori nella replicazione del DNA riarrangiano la sequenza nucleotidica del gene alieno.40 Le conseguenze di tali cambiamenti non possono essere previste in anticipo. La probabilità che in piante geneticamente modificate il trasferimento genico produca effetti dannosi, anche molto rari, è grandemente accresciuta dal fatto che ogni anno negli Stati Uniti vengono immessi in campo miliardi di individui transgenici.

Il grado con cui tali alterazioni si verificano nelle piante geneticamente modificate attualmente non è noto, perché l’industria biotecnologica non è costretta a fornire alle agenzie di controllo neppure le informazioni più fondamentali sull’effettiva composizione della pianta transgenica. Per esempio, non è richiesto nessun test per dimostrare che la pianta produce davvero una proteina con la stessa sequenza amminoacidica della proteina batterica originale. Eppure questa informazione è l’unica in grado di confermare se il gene trasferito produce davvero il prodotto teoricamente previsto. Inoltre, non è richiesto alcuno studio basato su un’analisi dettagliata della struttura molecolare e dell’attività biochimica del gene alieno e del suo prodotto proteico nella pianta transgenica commerciale. Dato che effetti inattesi possono svilupparsi molto lentamente, queste piante dovrebbero essere esaminate e monitorate per più generazioni successive. Attualmente nessuno di questi test essenziali viene eseguito, e miliardi di piante transgeniche vengono coltivate unicamente in base alla conoscenza più rudimentale dei cambiamenti nella loro composizione. Senza analisi dettagliate e continue delle piante transgeniche, non vi è modo di sapere se possono insorgere conseguenze rischiose. E dato il fallimento del dogma centrale, non c’è nessuna garanzia che non vi saranno conseguenze del genere. Le piante transgeniche attualmente coltivate rappresentano un massivo esperimento incontrollato, dalle conseguenze intrinsecamente imprevedibili. E i risultati potrebbero essere catastrofici.

Il dogma centrale di Crick ha avuto un ruolo potente nel generare sia il Progetto Genoma Umano sia la diffusione incontrollata di piante geneticamente modificate. Nonostante l’accumularsi di evidenze che contraddicono tale teoria dominante, ciò non ha avuto alcun effetto sulla decisione di avviare entrambe queste imprese monumentali. È vero che la maggior parte dei risultati sperimentali generati dalla teoria hanno confermato il concetto che l’informazione genetica, nella forma delle sequenze nucleotidiche del DNA, viene trasmessa dal DNA all’RNA alle proteine. Ma altre osservazioni hanno contraddetto la corrispondenza uno-a-uno tra gene e proteina e hanno abbattuto il predominio esclusivo del gene nella spiegazione molecolare dell’ereditarietà. Nell’ambito di un normale sviluppo della scienza, questi nuovi fatti avrebbero dovuto trovare posto nella teoria, aumentandone la complessità, ridefinendone il significato o, come in effetti è necessario, mettendone in discussione le premesse fondamentali. Le teorie scientifiche devono essere falsificabili, appunto per questo sono teorie scientifiche. Il dogma centrale è rimasto immune a un tale processo. Le evidenze discordanti vengono debitamente riportate e, abbastanza spesso, generano intense ricerche, ma il loro carattere contraddittorio con la teoria dominante non viene quasi mai notato.

Continuando ad aderire a una teoria ormai obsoleta, la maggior parte dei biologi molecolari opera in base all’assunzione che il DNA è il segreto della vita, mentre l’osservazione accurata della gerarchia dei processi viventi suggerisce fortemente che le cose stiano in modo esattamente opposto: il DNA non ha creato la vita; la vita ha creato il DNA.41 Quando la vita apparve per la prima volta sulla Terra, le proteine devono aver preceduto la comparsa del DNA perché, a differenza del DNA, le proteine possiedono la capacità catalitica di generare l’energia chimica necessaria per assemblare le piccole molecole presenti nell’ambiente in molecole più grandi, come il DNA. Il DNA è un meccanismo creato dalla cellula per immagazzinare informazioni prodotte dalla cellula stessa. Le prime forme di vita sopravvissero perché crebbero mettendo insieme una propria, caratteristica, gamma di molecole complesse. Deve essersi trattato di un tipo di crescita piuttosto inefficiente: i prodotti neosintetizzati non dovevano essere una replica esatta di ciò che già esisteva. Ma una volta prodotto dalla cellula primitiva, il DNA poté diventare un luogo stabile in cui immagazzinare informazioni strutturali sulla caotica chimica cellulare, qualcosa di simile agli appunti presi da un segretario durante la chiassosa riunione di una commissione. Non v’è dubbio che la comparsa del DNA rappresentò un passo cruciale nello sviluppo della vita, ma non dobbiamo commettere l’errore di ridurre la vita a un’unica molecola dominante, pur di soddisfare il nostro bisogno emotivo di semplificazioni prive di ambiguità. I dati sperimentali, spogliati delle teorie dogmatiche, indicano che non si può costringere entro i limiti di spiegazioni riduttive la cellula vivente, la cui intrinseca complessità suggerisce che, data la vastità della nostra ignoranza, qualsiasi sistema genetico artificialmente alterato deve prima o poi dare origine a conseguenze non volute, potenzialmente disastrose. Dobbiamo riconoscere quanto poco sappiamo veramente dei segreti della cellula, l’unità fondamentale della vita.

Il DNA non ha creato la vita; la vita ha creato il DNA

Perché, allora, il dogma centrale ha continuato a stare in piedi? Questa teoria è stata, in una certa misura, messa al riparo dalle critiche da un apparato più comune alla religione che alla scienza: il dissenso, o soltanto la scoperta di un fatto discordante, è un’offesa da punire, un’eresia che può facilmente portare all’ostracismo professionale. Quest’ottica deviante può in gran parte essere attribuita all’inerzia istituzionale, a una mancanza di rigore, ma vi sono altre, più insidiose ragioni che possono spiegare perché probabilmente i genetisti molecolari siano soddisfatti dello status quo; il dogma centrale ha fornito loro una spiegazione talmente soddisfacente, seducentemente semplicistica dell’ereditarietà, da far sembrare sacrilego l’avere dei dubbi. Il dogma centrale era semplicemente troppo bello per non essere vero.

Di conseguenza, i finanziamenti per la genetica molecolare sono rapidamente aumentati negli ultimi vent’anni; nuove istituzioni accademiche, molte delle quali non sono che varianti “genomiche” di istituti più secolari, come la sanità pubblica, sono proliferate. Ad Harvard e in altre università il curriculum dei corsi di biologia si è incentrato sul genoma. Ma oltre alla tradizionale economia legata al prestigio scientifico e ai generosi finanziamenti che lo seguono come la notte segue il giorno, il denaro ha distorto il processo scientifico che si è trasformato, da ricerca puramente accademica qual era, in un’impresa commerciale ad un grado stupefacente, ad opera degli stessi ricercatori. La biologia è divenuta la fascinosa preda del capitale di rischio; ogni nuova scoperta porta a nuovi brevetti, nuove partnership, nuove affiliazioni di corporation. Ma, come dimostra la crescente opposizione alle colture transgeniche, nell’opinione pubblica persiste la preoccupazione non solo riguardo alla sicurezza dei cibi geneticamente modificati, ma anche ai pericoli connessi con il calpestare arbitrariamente quei pattern di trasmissione ereditaria che si sono stratificati nel mondo naturale attraverso la lunga esperienza del processo evolutivo. Troppo spesso queste preoccupazioni sono state derise dagli scienziati che lavorano per l’industria come paure “irrazionali” di un pubblico senza istruzione. L’ironia di ciò sta, chiaramente, nel fatto che l’industria biotecnologica è basata su una scienza vecchia di quarant’anni e che ignora per comodità i risultati più recenti, i quali dimostrano che vi sono forti ragioni per temere le conseguenze potenziali del trasferimento di DNA tra specie diverse. Ciò che il pubblico teme non è la scienza sperimentale, ma la decisione fondamentalmente irrazionale di lasciarla uscire fuori dei laboratori, nel mondo reale, prima di averne ricavato vere conoscenze.

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8: Citazione di Watson.
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9: Citazione di Gilbert.
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10: Citazione di Clinton.
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11: Citazione di Crick.
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12: Citazione di Crick.
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13: Citazione di Crick.
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16: Citazione di Wade.
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17: Citazione di Lander.
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18: Citazione sullo splicing alternativo.
Venter et al., 2001 (op. cit.), pag. 1345.

19: Il ruolo dello spliceosoma nello splicing alternativo.
Collins CA, and Guthrie C. Allele-specific genetic interactions between Prp8 and RNA active site residues suggest a function for Prp8 at the catalytic core of the spliceosome. Genes Dev. 1999. 13(15):1970-82.

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21: Splicing alternativo; 38016 varianti proteiche da un gene di Drosophila.
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22: Il ruolo svolto dalle proteine dello spliceosoma nell’informazione genetica creata dallo splicing alternativo.
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23: Lo splicing alternativo nella replicazione dei virus, 1978.
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25: Lavori sullo splicing alternativo nell’uomo pubblicati fino al 1989.
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26: Il progetto di Venter et al., 2001

(op. cit), pag. 1305

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28: I processi che accrescono la fedeltà della replicazione del DNA.
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29: Gli enzimi che sintetizzano il DNA ne influenzano la sequenza nucleotidica.
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38: Citazione di Monsanto.
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39: Anomalie del DNA dell’ospite nella soia transgenica.
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40: Gli enzimi delle piante transgeniche riarrangiano la sequenza nucleotidica del gene alieno.
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41: Il DNA non ha creato la vita; la vita ha creato il DNA.

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