ORGANISMI TRANSGENICI E CLONAZIONE: L’INSOSTENIBILE PESO DEL NON-ESSERE

di Daniela Conti e Ferdinando Cerbone

solchi-campo-aridi

Nota introduttiva:

Questo articolo riproduce il testo dell’intervento al 2° CONVEGNO della rivista NEXUS  “Echi del Passato, Paure del Presente, Prospettive del Futuro”,  tenuto ad Abano nell’ottobre 2002.

Come altri articoli compresi nella categoria Vecchi OGM è stato scritto molti anni fa, tuttavia le tematiche di fondo, in primis quelle di ordine scientifico, sono tuttora valide. Inoltre credo sia una buona opportunità per chi inizia adesso a interessarsi del problema OGM poter conoscere “in presa diretta” quali furono il dibattito e le preoccupazioni sollevati dall’introduzione degli OGM sul mercato, quali furono (e sono) le forze che imposero la diffusione mondiale degli OGM. e quali le ragioni scientifiche, sociali ed economiche dei loro  oppositori. Può sorprendere che, sebbene per mia scelta di fedeltà “storica” manchino gli aggiornamenti sulle scoperte successive, dopo più di 20 anni questi scritti mantengano intatta la loro validità. Ma è certo che gli eventi e le scoperte scientifiche degli ultimi due decenni non hanno fatto che confermare la correttezza di quelle critiche e di quella opposizione.

ritratto di capo indianoTutte le cose sono connesse tra loro. Noi sappiamo almeno questo:

non è la terra che appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra.

Dov’è finito il bosco? E’ scomparso.

Dov’è finita l’aquila? E’ scomparsa.

E’ la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.

Grande capo indiano Seattle

“…è l’inizio della sopravvivenza”

“I fiori profumati sono nostri fratelli; il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli; le coste rocciose, il verde dei prati, il calore del pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia.

L’uomo bianco… tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come se fossero semplicemente delle cose da acquistare, prendere e vendere, come si fa con le pecore e con le pietre preziose. La sua bramosia divorerà tutta la terra e a lui non resterà che il deserto. Io non so. I nostri costumi sono diversi dai vostri.

La vista delle vostre città fa male agli occhi dell’uomo rosso. Ma forse ciò è perché l’uomo rosso è selvaggio e non può capire! Non esiste un posto tranquillo nella città dell’uomo [bianco]. Non esiste un luogo per udire le gemme schiudersi in primavera o ascoltare il fruscio delle ali di un insetto. Ma forse ciò avviene perché io sono un selvaggio e non posso comprendere. Sembra che il rumore offenda solo le orecchie. E che gusto c’è a vivere, se l’uomo non può ascoltare il suono dolce del vento o il fruscio delle fronde del pino profumato? L’aria è preziosa per l’uomo rosso, giacché tutte le cose respirano la stessa aria. L’uomo bianco non sembra far caso all’aria che respira.

Ma se vi vendiamo le nostre terre io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà rispettare gli animali che vivono in questa terra come se fossero suoi fratelli. Io sono un selvaggio e non conosco altro modo di vivere.

Ho visto un migliaio di bisonti imputridire sulla prateria, abbandonati dall’uomo bianco dopo che erano stati abbattuti da un treno in corsa. Io sono un selvaggio e non comprendo come il “cavallo di ferro” fumante possa essere più importante dei bisonti, quando noi li uccidiamo solo per sopravvivere. Che cos’è l’uomo senza gli animali? Se tutti gli animali scomparissero, l’uomo morirebbe in una grande solitudine. Poiché ciò che accade agli animali, prima o poi accade all’uomo.

Tutte le cose sono connesse tra loro. Noi sappiamo almeno questo: non è la terra che appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono connesse, come i membri di una famiglia sono connessi da un medesimo sangue. Non è l’uomo che ha tessuto la trama della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama, lo fa a se stesso. …. Anche i bianchi spariranno: forse prima di tutte le altre tribù. Contaminate il vostro letto e una notte vi troverete soffocati dai vostri rifiuti.

 

Dov’è finito il bosco? E’ scomparso.
Dov’è finita l’aquila? E’ scomparsa.
E’ la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.”

aquila che vola

Un mondo plurale

Ho voluto iniziare con questa lunga citazione del capo indiano Seattle, perché credo che in molti di noi queste parole scritte un secolo e mezzo fa mettano in vibrazione corde profonde, ed evochino una specie di nostalgia di un mondo che era, che magari i più adulti di noi hanno anche conosciuto, ma che va drammaticamente scomparendo sotto i nostri occhi.

E’ la nostalgia di un mondo in cui noi esseri umani non eravamo drammaticamente soli, ma parte di un tutto. Era un mondo plurale ma unitario, un universo governato da cicli, in cui ogni cosa, vivente e non vivente, faceva la sua parte nel perpetuare questo ancora misterioso segreto che è la vita. Il capo Seattle si sentiva parte di questi cicli, concepiva con reverenza e accettazione il destino umano di nascita-crescita-morte condiviso con tutte le altre creature, era perfettamente consapevole dell’interdipendenza di tutte le cose. Egli dice “Tutti respiriamo la stessa aria”; per creare quell’aria sono necessarie le foreste, che generano l’ossigeno, ed è necessario quel continuo scambio di gas tra rocce, mare e cielo che mantiene costante la composizione della nostra atmosfera, unica condizione perché la vita possa continuare sulla Terra.

 

La solitudine dell’uomo isolato dalla natura

 

Il pianeta è un organismo vivente, questo gli Indiani lo sapevano o almeno lo intuivano, e riconoscevano a questa intuizione il valore di vera conoscenza.

Oggi è necessaria una rifondazione culturale. I problemi del pianeta sono lì a dirci che i valori di questa società vanno sovvertiti. Pretendendo di mettere al centro l’uomo, o meglio l’individuo nell’esaltazione delle sue possibilità materiali, questa cultura in realtà condanna ogni singolo individuo alla più totale solitudine e mancanza di senso. E questo inevitabilmente, proprio perché il modello ideale, ideologico, su cui si è sviluppata scaturisce da una profonda scissione iniziale: l’avere isolato l’uomo dalla Natura, ponendolo al di fuori, anzi al di sopra, dei cicli dei quali è parte, da cui dipende e coi quali, oggi sempre più pesantemente, interferisce. Questa scissione ci ha portati a perseguire un’idea di “sviluppo”, o “crescita”, o “progresso” – comunque la si voglia chiamare – puramente quantitativa, e in quanto tale illimitata. Impostiamo il nostro vivere entro una prospettiva angusta da cui la  “qualità” è bandita e, con essa, i valori etici, il rispetto degli equilibri naturali e il senso del limite, della finitezza delle risorse. Sulla spinta di una tecnologia che, date le premesse ideologico-culturali, non tiene conto delle proprie ricadute, oggi siamo al punto che le risorse naturali non si rigenerano più allo stesso ritmo con cui le consumiamo. Di qui le alterazioni che ormai investono tutto il pianeta: sconvolgimenti climatici, esaurimento delle risorse idriche, desertificazione delle terre coltivabili, enorme aumento di ogni forma d’inquinamento, drastica perdita di biodiversità. Aria, acqua e terra, le risorse fondamentali per la vita sul pianeta, oggi sono tutte a rischio.

Dal punto di vista concettuale, la cultura occidentale non vede la Natura come un insieme armonico (un cosmo), ma come un universo caotico di cui estrarre le leggi per poterlo dominare, mentre nella biosfera il principio sovrano è la competizione: chi ha più potere, il più ricco di mezzi vince. E rivelandone il carattere ideologico, traspone questa visione dalla Natura a tutti gli aspetti del vivere.

 

Competizione o cooperazione?

cooperareChe altro è la cosiddetta Legge del Mercato – oggi dottrina a tal punto pervasiva di ogni aspetto della vita sociale da estendersi fino al microcosmo, fino al brevetto dei geni – se non l’estensione di un’idea di mondo regolato dalla competizione, dove vince chi accumula più beni, più potere economico, e continua a espandersi, possibilmente all’infinito, incurante delle conseguenze per le società umane e per l’ambiente? Ma questa ideologia poggia su una visione falsa e monca del mondo reale, in particolare di quello vivente. Ignora un dato essenziale nella storia evolutiva della vita sul pianeta che è la cooperazione, spinta in certi casi fino alla simbiosi, cioè una forma di cooperazione in cui i due elementi coinvolti diventano a tal punto indispensabili l’uno all’altro da non poter più vivere autonomamente. Questa è l’origine ancestrale e la realtà attuale di ogni singola cellula che ci compone.

 

Evolvere è coevolvere

Un altro dato fondamentale sistematicamente ignorato è la coevoluzione, per cui ogni specie – e ogni singolo individuo di una specie – è quello che è per via degli organismi, delle cose e degli eventi che ha incontrato. Ovvero ogni specie, e ogni individuo, è ciò che è grazie alla sua storia. In quest’ottica distorta, riduttiva (riduzionista), ogni essere vivente può essere destoricizzato, decontestualizzato (del resto lo facciamo in primo luogo con noi stessi), come se avesse un’identità e un senso a prescindere dalla rete di relazioni – la sua storia appunto – che lo hanno reso ciò che è e che costantemente lo modificano. Evolvere è coevolvere, ciò sia nell’ambito umano, sia nella generale relazione fra organismi e ambiente.

 

Centralità dell’ambiente

Una pianta che cresce oggi si sviluppa in un ambiente ricco di ossigeno, creato da batteri che circa due miliardi di anni fa inventarono un nuovo tipo di fotosintesi dall’acqua, un processo molto efficiente che generava ossigeno come prodotto di scarto del metabolismo energetico. Da un’atmosfera ricca di metano e anidride solforosa si passò, in milioni di anni, a un’atmosfera sempre più ricca di ossigeno. Ma l’ossigeno era tossico per gran parte delle forme di vita allora esistenti e ciò innescò la prima grande estinzione delle forme di vita sul pianeta. Chi tollerava l’ossigeno, o chi diventò capace di utilizzarlo tramite la respirazione, ereditò la Terra e da quelle prime forme viventi sono poi discese tutte le altre che conosciamo, comprese quelle ormai estinte da tempi immemorabili. L’ambiente modifica e seleziona gli organismi e gli organismi modificano l’ambiente, in un gioco infinito; di qui l’importanza che assume la qualità delle loro reciproche relazioni perché la vita possa continuare. Ma la visione scientifica attualmente dominante isola ogni vivente da questo sistema complesso di influenze reciproche, di percorsi evolutivi che possono convergere o divergere, intrecciarsi o restare separati, ma che sempre devono trovare una forma più alta di equilibrio integrandosi nel sistema-pianeta che tutto contiene.

 

Una “chiave unica”?

piante-alberi-foresta

In biologia, la visione riduzionista isola ogni essere dal contesto delle relazioni e dal flusso del tempo e lo riduce alla molecola del suo DNA, unica chiave della sua identità. Diventa così possibile alterare questa cosiddetta ’identità” dell’organismo in modo meccanico, pretendendo che tale operazione non interferisca affatto col funzionamento in toto dell’organismo stesso. Ma non esiste una pianta, o un animale, benché ridotti ai minimi termini, al loro DNA, su cui si possa intervenire trascurando le interrelazioni tra l’organismo e l’ambiente esterno, tra le sue diverse cellule e tra le diverse componenti di una stessa cellula. Il riduzionismo non è che un modello troppo semplificato, semplicistico, del mondo e persino gli OGM e gli interventi di clonazione ce lo dimostrano.

 

Sorprese dalla soia GM

La soia modificata con l’inserzione di un gene batterico per la resistenza a un erbicida non è più la stessa. Per ammissione della stessa Monsanto che ha prodotto e brevettato questa soia, oggi il DNA del gene trasferito contiene delle nuove sequenze, che prima non c’erano e che sono una conseguenza dell’interazione tra il gene estraneo e l’intero sistema della pianta.

 

Sorprese dalla clonazione

pecora-clonata-DollyLa storia, questa variabile di continuo elusa dal riduzionismo genetico, erompe comunque sulla scena. Ed ecco Dolly, la prima pecora clonata, che a pochi anni di vita è già vecchia e piena di acciacchi come e più dell’adulto da cui veniva il nucleo usato per la clonazione. Perché?

Perché anche il tempo, la memoria – la storia, in quanto accumulo di tracce chimiche sul DNA – è dentro la materia vivente, la modifica, lascia i suoi segni [1] anche nella doppia elica del DNA; e il tempo, noi lo sappiamo bene, nel mondo vivente segue una traiettoria irreversibile. Per un organismo vivo, funzionare bene significa essere in un flusso di continua trasformazione, che ha una direzione temporale: sviluppo ® maturazione ® decadenza ® morte, un intreccio di fenomeni che la scienza è ancora molto lontana dal conoscere con profondità, non parliamo poi dall’averne un controllo completo.

 

Sappiamo veramente poco…

ritratto di Barry-Commoner

Barry-Commoner

Quali sono i fondamenti teorici di quella che attualmente appare come la scienza trainante, cioè la genetica,  e della sua tendenza oggi prevalente – cioè la trasformazione ingegneristica del materiale genetico dei viventi?  Per questo esame, in questa sede  necessariamente breve, partirò da ciò che Barry Commoner[2], grande biologo e uno dei padri dell’ecologismo moderno  (molti ricorderanno Il cerchio da chiudere che ha modificato la prospettiva di un’intera generazione), ha scritto in un articolo apparso quest’anno (2002), dal titolo “Il mito del DNA”:

I dati sperimentali, spogliati delle teorie dogmatiche, indicano che non si può costringere entro i limiti di spiegazioni riduttive la cellula vivente, la cui intrinseca complessità suggerisce che, data la vastità della nostra ignoranza, qualsiasi sistema genetico artificialmente alterato deve prima o poi dare origine a conseguenze non volute, potenzialmente disastrose. Dobbiamo riconoscere quanto poco sappiamo veramente dei segreti della cellula, l’unità fondamentale della vita. “

 

E in un altro passo:

“… il denaro ha distorto il processo scientifico che si è trasformato, da ricerca puramente accademica qual era, in un’impresa commerciale a un grado stupefacente, ad opera degli stessi ricercatori. La biologia è divenuta la fascinosa preda del capitale di rischio; ogni nuova scoperta porta a nuovi brevetti, nuove partnership, nuove affiliazioni di corporation. Ma, come dimostra la crescente opposizione alle colture transgeniche, nell’opinione pubblica persiste la preoccupazione non solo riguardo alla sicurezza dei cibi geneticamente modificati, ma anche ai pericoli connessi con il calpestare arbitrariamente quelle modalità di trasmissione ereditaria che si sono stratificate nel mondo naturale attraverso la lunga esperienza del processo evolutivo. Troppo spesso queste preoccupazioni sono state derise dagli scienziati che lavorano per l’industria come paure “irrazionali” di un pubblico senza istruzione. L’ironia di ciò sta, chiaramente, nel fatto che l’industria biotecnologica è basata su una scienza vecchia di quarant’anni e che ignora per comodità i risultati più recenti, i quali dimostrano che vi sono forti ragioni per temere le conseguenze potenziali del trasferimento di DNA tra specie diverse. Ciò che il pubblico teme non è la scienza sperimentale, ma la decisione fondamentalmente irrazionale di lasciarla uscire fuori dei laboratori, nel mondo reale, prima di averne tratto vere conoscenze.

 

Le applicazioni tecnologiche sono asservite a grandi interessi privati

In questi brani sono sintetizzati tutti gli aspetti problematici e rischiosi della transgenesi e della clonazione, due dei filoni principali attualmente perseguiti dall’apparato dominante della genetica. Da un lato emerge la sempre più intensa “colonizzazione” della ricerca, anche del settore pubblico, da parte di interessi privati, spesso di grandi gruppi transnazionali che si muovono unicamente in un’ottica di profitto immediato e di monopolio delle risorse genetiche e delle conoscenze. Ciò vuol dire, anche, difficoltà di accesso a finanziamenti per i ricercatori che vorrebbero seguire altre strade d’indagine – e loro conseguente emarginazione dall’ambiente accademico. Dall’altro lato Commoner evidenzia la deviazione culturale di un apparato scientifico che appare riluttante a mettere in crisi e modificare profondamente, come sarebbe nella normale prassi dello sviluppo scientifico, teorie ormai invalidate dai dati sperimentali più recenti e che oggi sono tenute in vita solo perché funzionali all’apparato economico e scientifico cresciuto su di esse e ruotante intorno ad esse.

 

Il dogma centrale della genetica molecolare

DNA-RNA-proteinVediamo allora più da vicino quali sono le teorie che giustificano la modificazione del vivente con l’ingegneria genetica. L’idea fondante è il cosiddetto “dogma centrale” della biologia molecolare, così definito dal suo stesso autore Francis Crick, scopritore insieme a James Watson della struttura a doppia elica del DNA. Secondo il dogma centrale, l’informazione ereditaria fluisce in un’unica direzione lineare, dal DNA all’RNA alle proteine. Hardy, scienziato e dirigente di un importante gruppo biotech, dovendo chiarire a una commissione del Senato americano quali sono le basi teoriche della biotecnologia  ha così schematizzato, in maniera molto concisa ma efficace, il significato del dogma centrale (la citazione è tratta sempre dall’articolo di Commoner):  “Il DNA, il top management (i quadri direttivi), dirige la sintesi dell’RNA, il middle management (i quadri intermedi), che a sua volta dirige la sintesi delle proteine, i workers (i lavoratori).” In questa visione, il risultato finale del trasferire un gene (poniamo da un batterio a una pianta) diventa altrettanto prevedibile dell’organizzazione aziendale: i lavoratori, cioè le proteine, faranno esattamente ciò che i dirigenti – in primis il DNA – dicono loro di fare.

 

Un gene-una catena proteica

descrizione da gene a proteina

Un gene è visto come l’unico determinante della produzione di una particolare catena proteica, attraverso un processo che avviene in più passaggi mediati da varie forme di un altro acido nucleico, l’RNA, ma in definitiva diretti dal DNA; lo specifico assemblaggio di più catene dà poi origine a una particolare proteina. Tra geni e proteine esisterebbe una corrispondenza univoca, specifica e costante, e il DNA avrebbe il controllo totale sull’identità della proteina, quindi sul carattere ereditario a cui la proteina dà forma. Poiché le proteine sono responsabili di ogni funzione e di ogni struttura presente in un organismo, l’insieme dei geni di quell’organismo dovrebbe essere la condizione necessaria e sufficiente per dare conto di tutte le caratteristiche manifestate dall’organismo stesso.

Le moderne biotecnologie sono uno strumento assolutamente nuovo e inedito d’intervento sulla natura

E’ questo concetto del DNA come unico determinante delle proteine/caratteri a giustificare la transgenesi: un certo gene, da qualunque specie provenga e in qualunque specie io lo trasferisca, produrrà sempre la stessa proteina e niente altro. Nella transgenesi, quindi,  si saltano quelle barriere di specie che la genetica tradizionale, affidandosi ai meccanismi naturali di riproduzione e di incrocio, aveva sempre dovuto rispettare. Per questo l’ingegneria genetica non è affatto equiparabile alle tecniche precedenti e si presenta – sia per questo motivo sia per gli specifici strumenti che utilizza per trasferire i geni, quali i vettori artificiali –  come una tecnologia assolutamente nuova e inedita d’intervento sulla natura.

 

Il brevetto dei geni

Ma l’idea del DNA come primo determinante di una proteina è anche il supporto teorico alla brevettabilità dei geni: se un gene controlla una particolare funzione, quindi ha una determinata “utilità”, se riesco a isolarlo e a fare in modo che svolga quella funzione in un organismo in cui non c’è, ho creato un’innovazione brevettabile. (Questa è in realtà una semplificazione della situazione reale, dato che oggi tutta la materia riguardante la brevettazione dei geni è estremamente confusa e si arriva anche a brevettare intere specie così come esistono in natura, scavalcando il già labile e vago concetto di “utilità”.)

 

catena-dna

Le sorprese del Progetto Genoma Umano

Ma il dogma centrale corrisponde al vero? E il DNA è veramente al vertice della piramide gerarchica in cui si sostanzierebbero i fondamenti molecolari della vita? Bene, molte scoperte degli ultimi vent’anni indicano di no.  Uno dei più importanti risultati emersi dal Progetto Genoma Umano, che si proponeva di identificare i geni di tutte le nostre caratteristiche, è che nel nostro DNA non ci sono abbastanza geni (sono solo circa 20 000) perché vi sia una corrispondenza di 1 a 1 con le centinaia di migliaia di proteine di cui siamo fatti. Come si spiega la sproporzione tra il numero dei geni e quello delle proteine? Una delle scoperte più affascinanti degli anni ‘80, confermata dal Progetto Genoma Umano, è il cosiddetto splicing alternativo. Senza entrare qui in una descrizione dettagliata del processo, dirò solo che in generale lo splicing è il meccanismo per cui dalla “copia di lavoro” di un gene (che consiste in un tipo di RNA) vengono tagliati via dei pezzi corrispondenti a intere sequenze di basi, mentre i pezzi rimanenti vengono esattamente uniti insieme a formare l’RNA messaggero, che poi esce dal nucleo (dove il DNA è contenuto e copiato in RNA) e viene tradotto in proteina nel citoplasma cellulare. Questo precisissimo taglia-e-cuci di sequenze era già un bel rompicapo, ma la scoperta dello splicing alternativo ha complicato il quadro ancora di più. Perché? Per il fatto che i pezzi da eliminare nella “copia di lavoro” e da tenere e unire nel messaggero che poi viene tradotto in proteina non sono definiti in modo fisso una volta per tutte come si pensava, ma cambiano al variare delle esigenze della cellula. E allora abbiamo che da uno stesso gene possono derivare 2, 5, 6 o perfino (come avviene per il prodotto di un gene di drosofila, il moscerino della frutta) 38 016 catene proteiche tutte diverse [3]. Ciò che cambia in ognuna di queste varianti proteiche non è il gene, il segmento originale di DNA, che è sempre lo stesso, ma piuttosto è il processo che avviene sulla “copia di lavoro” derivata dal gene. Come è regolato questo processo? Non lo sappiamo ancora. Però è evidente che questa straordinaria – e insospettata – flessibilità del DNA è influenzata dall’ambiente cellulare, tramite una rete molto complessa di relazioni: cascate di segnali (che, in genere, consistono in proteine) e contatti fra molecole trasmettono “informazioni” sulle condizioni interne ed esterne alla cellula, e per questa via arrivano a regolare l’attività dei geni.

 

Caduta dei dogmi della teoria genetica classica

Ma anche altri fenomeni scoperti negli ultimi decenni contraddicono postulati fondamentali della teoria classica, sui cui si fonda l’ingegneria genetica; uno di essi è l’ancora misterioso editing dell’RNA, che altera la “copia di lavoro” derivata dal gene aggiungendo istruzioni (basi) che si rivelano essenziali per costruire la proteina finale e che però non sono scritte nel segmento di DNA (gene)  originale. Da dove provengono queste istruzioni (= informazione) e come sono regolate? Non si sa. Vediamo qualche altro esempio. Durante lo sviluppo embrionale, cellule che hanno lo stesso DNA si differenziano nei diversi tipi cellulari – con specializzazioni che durano l’intera vita dell’organismo – per effetto dei contatti con le cellule vicine, quindi per effetto della posizione che occupano nel tessuto che si va formando. Oltre al programma scritto nella doppia elica, esiste forse una sorta di “progetto” spaziale del corpo? Codificato come? Non si sa. Speciali proteine, chiamate chaperon, devono intervenire perché altre proteine appena sintetizzate e ancora in forma di catene svolte, prive della forma spaziale corretta e perciò inattive, si ripieghino nella forma tridimensionale da cui dipende la loro attività. Che cosa fornisce alle chaperon l’informazione necessaria per dare alle altre proteine la forma corretta? Non si sa. Ma il caso più eclatante è stato quello dei prioni, i supposti agenti, fra l’altro, della BSE, la “malattia della mucca pazza”. Questi agenti infettivi sembrano consistere solo di proteine, cioè essere privi di acidi nucleici, e tuttavia sono capaci di trasformare in infettive, per semplice contatto, proteine che prima erano costituenti normali dell’ospite. Crick ha affermato una volta che “se si scoprisse anche uno solo, fra i tanti tipi di cellule attualmente esistenti”, in cui l’informazione genetica passa da una proteina a un acido nucleico o da proteina a proteina, ciò “sovvertirebbe le basi concettuali di tutta la biologia molecolare”[4]. Bene, TUTTI i  fenomeni appena ricordati contraddicono il dogma centrale, e alcuni di essi suggeriscono che le proteine non siano affatto semplici esecutori di istruzioni, ma abbiano una loro autonomia di azione, ancora piuttosto oscura.

 

Insomma, dalle ricerche degli ultimi decenni emerge che il DNA è un sistema molto flessibile, “fluido” come è staio definito da alcuni studiosi, e che l’unità fondamentale del vivente è la cellula intesa come sistema integrato, frutto di millenni di coevoluzione di tutte le sue componenti, proteine e acidi nucleici.

Democrazia cellulare

Mae-Wan-Ho genetista-cinese

MAE-WAN-HO genetista

Il DNA non può funzionare da solo, e non è il vertice di nessuna piramidedell’informazione genetica. Certo ha un ruolo cruciale: nella sua molecola è registrato tutto ciò che è stato utile nella passata storia evolutiva di una specie, tutti gli “esperimenti” sopravvissuti alla selezione naturale, quindi è l’essenziale “archivio” – storico, e al tempo stesso in continuo divenire –  a cui un organismo attinge per il suo sviluppo e per la vita quotidiana. Ma il DNA non è l’unico determinante: come appare sempre più chiaramente, il suo funzionamento è regolato in base a ciò che è utile nelle condizioni dell’immediato presente. E di momento in momento le scelte, su quali geni attivare o disattivare, su quali proteine produrre e quali no, sembrano essere compiute “in comune” da tutte le componenti dell’ambiente cellulare, a loro volta influenzate da una rete di segnali cellula–cellula e organismo–ambiente esterno. “Democrazia cellulare“, così la scienziata Mae-Wan Ho chiama, con un’immagine molto bella e profondamente evocativa, il nuovo quadro emergente della complessità. Se da un lato viene così a cadere l’isolamento del sistema molecolare piramidale previsto dal dogma centrale,  dall’altro si apre la formidabile prospettiva di una straordinaria rete complessa in cui tutte le distinzioni tra interno/esterno, fino a individuo/mondo, si ricompongono a un livello più alto entro un sistema intrecciato e unitario di relazioni: la Terra, una bolla di vita sospesa nello spazio.

 

Geni e quotazioni in Borsa

Questi risultati, che come abbiamo visto hanno una portata enorme per la teoria biologica, non potevano non suscitare un po’ di scompiglio nel mondo di quella che potremmo chiamare la Proprietà Intellettuale SpA[5],  un mondo fatto sia di grandi corporation sia di medie e piccole società di punta per la ricerca genomica, che vivono sequenziando DNA e dando la caccia a geni da brevettare.

 

Tanto per farci un’idea delle proporzioni del fenomeno brevetto, John Doll, il Direttore per le Biotecnologie dell’USPTO (US Patent and Trademark Office, l’ufficio dei brevetti americano), in un’intervista rilasciata a Scientific American nel 2001 ha così risposto alla domanda su quanti siano i geni già brevettati: “L’unico numero di cui dispongo è solo una stima ipotetica. Dal 1980 a oggi il nostro ufficio ha rilasciato più di 20 000 brevetti su geni o altre molecole correlate (sia dell’uomo che di altri organismi). Inoltre sappiamo di avere 25 000 richieste ancora inevase, relative a geni o molecole correlate.” Nella grande frammentazione e segretezza delle sequenze coperte da brevetto, nessuno sa dire neppure quanti siano i geni umani già brevettati. Ed ecco nel 2001, nel bel mezzo di questo entusiasmo, piovono come una doccia fredda i risultati del Progetto Genoma Umano.

All’annuncio che i geni umani sono circa 30-40 000 (Nota: oggi sappiamo che sono solo 20 000), la borsa risponde con una drastica caduta delle quotazioni per le società che operano nel campo della genomica. Con tutto quello che è già stato brevettato o è in procinto di esserlo, la manciata di compagnie che già detiene la maggioranza dei brevetti sul genoma umano rischia di ritrovarsi fra le mani un bel capitale di geni, escludendo dai giochi tutte le altre. Ecco allora i tentativi di negare la validità dei risultati ottenuti dalle due équipe del Progetto Genoma, quella pubblica e quella privata, insistendo sul fatto che i geni sarebbero molti di più: 60.000, 90.000,  120.000. Questo balletto di cifre mette bene in evidenza una cosa. L’industria biotech, che si è fondata sul brevetto per sfruttare in maniera monopolistica i cosiddetti “geni delle malattie” e “geni del comportamento”, si sente scossa alle fondamenta da questa ulteriore prova – stavolta alquanto definitiva – che i singoli geni non controllano singole proteine, ma che il DNA vive e funziona in quanto sistema complesso e coevoluto con l’universo delle proteine.

FIGURA  Banknote bills

Banknote bills

Un nuovo territorio di caccia

Crolla un’intera visione del vivente, ma non è questo a suscitare il panico nella Proprietà Intellettuale SpA. Se il gene non è più l’unico determinante di un’unica proteina, che fine fa la credibilità del brevetto sui geni? Come lo si può giustificare, se “l’utilità” della cosiddetta invenzione cambia di volta in volta? E come si può risolvere il conflitto – e l’infinito, e costosissimo, contenzioso legale – tra chi vuole sfruttare a fini commerciali due proteine diverse derivanti dallo stesso gene? Ma il panico si è placato in fretta; il vecchio riduzionismo viene traghettato tal quale verso il futuro, con la sua semplice trasposizione al nuovo territorio di caccia: il proteoma, cioè l’insieme delle proteine. Il buon Doll dell’USPTO tranquillizza gli animi. Non c’è nessun problema: proteine che derivano da sequenze differenti di uno stesso gene possono diventare “invenzioni” distinte e quindi oggetto di brevetti separati.

Ritrovare il senso perduto della nostra umanità e del bene comune

Rispetto alla bellezza della sfida che la visione complessa del vivente pone al nostro senso profondo di umanità e al nostro intelletto, queste diatribe e le relative soluzioni gattopardesche non possono che rivelarsi in tutta la loro meschinità.

*“Questo è il prodotto del pensiero unico legato al potere come unica fonte di sopravvivenza ed è in nome di questo che si sono perpetuate e si perpetuano guerre, genocidi e disastri di ogni genere.

Oggi è importante operare un passaggio profondo. Noi dobbiamo lavorare sulla distinzione tra potere e potenza, consapevoli che il potere può generare solo accumulo e che inevitabilmente questo sfocia in nuovi conflitti. La potenza è invece la fonte inesauribile della complessità che continuamente genera vita a un più alto grado di emancipazione. Cooperare è questo il nuovo verbo che dobbiamo provare a mettere in campo. Noi siamo un sistema complesso che vive all’interno di un sistema complesso più grande che ci contiene, come scriveva il grande capo indiano utilizzando la sua conoscenza che era la sintesi della storia del suo popolo. Noi dobbiamo provare a scrivere la nostra storia. Wilhelm Reich ha scritto in tutti i suoi libri che l’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita e dovrebbero anche governarla. Oggi noi assistiamo continuamente all’impoverimento di questi significati, semplici eppure così profondi. Il titolo di questo convegno è per certi aspetti molto impegnativo ma anche molto stimolante: quali sono gli echi del passato che oggi ci fanno sentire la paura del presente, sono forse gli echi del nostro mondo soggettivo o quelli del perduto senso della collettività e del bene comune? Oggi noi possiamo dire che come individui siamo solo l’espressione di un processo evolutivo della vita che in modo incessante scorre, come il fiume scorre nel suo letto e va verso il mare, ma quanti ostacoli si frappongono a questo andare!

Personalmente credo che noi non dobbiamo essere coraggiosi, ma semplicemente sciogliere queste paure che ognuno di noi percepisce come impedimento al suo divenire, per arrivare ognuno a percepire la propria potenza creativa come il grande dono della vita, che non può essere ridotto a merce di scambio. L’amore non si compra, e neppure si vende, il lavoro non può essere forza da sfruttare, la conoscenza è la sapienza di essere ciò che siamo: esseri in relazione con altri esseri, “obbligati” a cooperare. Questo è il futuro che ci possiamo augurare di poter seminare.”

 

*Questa citazione finale è tratta da una comunicazione personale del dr. Ferdinando Cerbone, presidente dell’associazione “Coevoluzione” di cui faccio parte. Ho voluto citare sempre testualmente queste parole: sono così intense e ricche di umanità che modificarle vorrebbe dire sminuirle. Oggi Nando non è più con noi, ma siamo in molti a ringraziarlo di tutto ciò che ha seminato, provando a continuare sul cammino tracciato dalle sue intuizioni e dalla sua forza.

Note Conclusive

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[1] Oggi questi segni sono noti nella loro struttura chimica e sono nel complesso indicati col nome epigenetica.

[2] Commoner B., Unraveling the DNA Mith. The spurious foundation of genetic engineering. Harper’s Magazine, Febbraio 2002.

 

[3] Schmucker D., et al., Drosophila Dscam is an axon guidance receptor exibiting extraordinary molecular diversity. Cell, 9 Giugno 2000, 101(6), 671-84. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10892653

 

[4] Crick F.H.C. The Central Dogma of Molecular Biology. 1970, Nature 227: 563.

[5] http://www.altraofficina.it/fuoritempo/documenti.htm

 

Questo articolo, come tutto il mio attuale lavoro di analisi dei sistemi adattativi complessi, è frutto della collaborazione con l’Associazione Coevoluzione, un gruppo di studiosi provenienti da campi diversi e specialisti di differenti discipline, presieduto dal dr. Ferdinando Cerbone.