il direttore dell'orchestra dei gebi è l'ambiente

ADATTAMENTO ALL’AMBIENTE – LA CHIAVE È LA PLASTICITÀ EPIGENETICA DEL GENOMA

di Daniela Conti

Questa intervista all’epigenetista Andrew Pospisilik è tratta dall’articolo One sequence, many variations (Un’unica sequenza, molte varianti) che compare nel sito di The Scientist. Riguarda i cambiamenti epigenetici grazie ai quali gli organismi vengono ad essere dotati di grande plasticità, per cui possono cambiare rapidamente e adattarsi al proprio ambiente.

Intervista

La teoria genetica presuppone che all’origine delle differenze nei caratteri manifesti (= fenotipici) degli organismi vi siano mutazioni casuali nella sequenza di basi del loro DNA. Ma gli epigenetisti, ai quali appartiene anche l’intervistato Andrew Pospisilik, ritengono che le mutazioni siano responsabili solo di una parte delle varianti con cui si manifestano i caratteri nei singoli organismi [p.e. il carattere “colore degli occhi” ha numerose varianti: azzurro, nocciola, verde…]. I cambiamenti epigenetici sono dovuti al legame di gruppi chimici sul DNA e sulle proteine che compattano il DNA nella cromatina [queste proteine sono chiamate istoni], e anche ad altri fattori [microRNA]. Tali cambiamenti epigenetici consentono agli organismi di modulare l’espressione dei geni in base agli stimoli e alle condizioni dell’ambiente in cui vivono. I cambiamenti epigenetici sono ereditabili [ma fisiologicamente reversibili, a differenza delle mutazioni nella sequenza del DNA], e modificano i caratteri delle generazioni future senza mutazioni nella sequenza di basi del DNA. [Ulteriori informazioni in questo blog all’articolo Epigenetica: La rivoluzione copernicana in biologia].

Pospisilik studia specificamente come le influenze ambientali nelle prime fasi della vita, già dalla fase embrionale, causino cambiamenti epigenetici che hanno conseguenze sulla salute durante la vita adulta. Pospisilik è oggi a capo del Dipartimento di Epigenetica del Van Andel Institute (VAI, un istituto privato di ricerca biometrica, situato in Michigan), e studia come varianti fenotipiche diverse possano emergere dalla stessa sequenza di DNA.

Perché lo studio dell’epigenetica è così importante?

Da quando gli scienziati hanno scoperto il DNA, capito cosa sono i geni, e iniziato a indurre mutazioni e a sequenziare i geni stessi, hanno visto quanto gli effetti delle mutazioni fossero riproducibili e così si sono persi nell’idea preconcetta che tutto debba essere genetico. Tuttavia, man mano che gli scienziati identificano le differenze genetiche tra gli esseri umani, risulta sempre più chiaro che la genetica spiega al massimo un terzo del puzzle. Per esempio, i gemelli identici (monovulari) non sono del tutto identici. IL PEZZO MANCANTE È LA PLASTICITÀ DELLO SVILUPPO, uno dei principali fattori che determinano chi e che cosa siamo. Anche in organismi che hanno origine da uno stesso stampo di DNA, come i gemelli identici, si sono evoluti fattori che ne mediano la plasticità durante lo sviluppo.

epigeneyista

L’epigenetista Andrew Pospisilik

Il successo di ogni forma di vita è legato alla continua comparsa di caratteri fenotipici differenti. Secondo la teoria genetica classica, sono le mutazioni casuali nella sequenza di basi del DNA a guidare questo processo, ma a quanto dimostra l’epigenetica, una stessa sequenza di DNA può produrre più di un risultato fenotipico. Per gli organismi che generano molti figli, come i moscerini della frutta, non ha senso dal punto di vista evolutivo avere centinaia di figli tutti identici. Se la loro sequenza del DNA li rende particolarmente vulnerabili a una certa perturbazione ambientale, potrebbero morire tutti. È meglio che vi sia variabilità nell’insieme della progenie, in modo che alcuni dei figli possano sopravvivere.

Può darci alcuni esempi di programmazione epigenetica?

Vi sono molti casi in cui è possibile attivare o disattivare sperimentalmente lo stesso sistema genetico, e poi si osserva che la manifestazione del carattere cambia totalmente. Questi diversi stati non hanno nulla a che fare con la genetica, poiché il genoma non subisce alcun cambiamento.

ape regina

Ape regina circondata dalle guardiane, che si dispongono a cerchio intorno a lei, sempre rivolte verso di lei

Un esempio perfetto viene dal mondo degli insetti. Le api operaie e l’ape regina hanno lo stesso patrimonio genetico, ma esso viene utilizzato in modi completamente diversi, che si mantengono costanti per tutta la vita della singola ape. L’epigenetica è il grande pezzo mancante del puzzle. La chiave per generare un’ape regina sta nella sua dieta: l’ape regina viene nutrita a pappa reale, che influenza le reazioni di acetilazione degli istoni (quindi una modificazione della cromatina), creando un programma di utilizzo del DNA diverso da quello che funziona nelle api operaie. Anche se questi processi non ci sono ancora del tutto chiari, tuttavia in ogni organismo finora studiato gli scienziati hanno trovato le prove di una riprogrammazione epigenetica con effetti riproducibili.

Per quanto riguarda l’uomo, abbiamo l’esempio famoso dell’inverno della fame in Olanda. Durante la Seconda guerra mondiale, gli olandesi soffrirono un periodo di carestia prolungato. Gli scienziati hanno scoperto che i discendenti delle persone che hanno vissuto quel periodo sono più suscettibili alle malattie cardiache e metaboliche, ancora mezzo secolo dopo. Come nell’esempio dell’ape regina, la genetica da sola non spiega questi effetti, che si rivelano essere conseguenze dirette della riprogrammazione epigenetica nel feto.

In che modo le informazioni sull’epigenetica possono essere utilizzate per trattare le malattie?

Oggi vi è la tendenza allo sviluppo di una medicina personalizzata, specificamente tagliata sulle particolari condizioni del singolo paziente. Per esempio, una persona affetta da diabete ha la glicemia alta e, poiché le cause che possono far alzare la glicemia sono molte, esistono vari tipi di diabete. Possono entrare in gioco fattori genetici, che influenzano i modi diversi in cui l’individuo raggiunge il proprio stato di malattia, ma anche l’epigenetica ha un ruolo importante.

Benché questo aspetto sia ancora relativamente poco studiato, la comprensione di questa scatola nera è importante; potrebbe aprire la porta a nuove terapie epigenetiche. Potendo avere una diagnosi di precisione, sapremmo perché una persona affetta da diabete di tipo 2 risponde a un certo farmaco, e un’altra invece no. Inoltre, poiché si ritiene che molti processi epigenetici avvengano in una fase molto precoce della vita, gli scienziati potrebbero misurare alla nascita specifici biomarcatori al fine di stimare il rischio epigenetico individuale di sviluppare una data malattia. Per esempio, in caso di rischio elevato per il diabete, si potrebbe far adottare al soggetto uno stile di vita che lo protegga dalla malattia.

Per quanto riguarda il cancro, attualmente si stanno sperimentando terapie epigenetiche, perché oggi sappiamo che in una cellula tumorale l’epigenetica va in tilt. Rispetto a certi processi molecolari, la cellula cancerosa è ultra-sensibile in confronto alle cellule normali, quindi le cellule cancerose potrebbero essere trattate direttamente modificando la loro epigenetica senza necessariamente influenzare il resto del corpo. E poiché i quadri epigenetici sono reversibili, si può cercare di ristabilire una situazione di normalità.

modello epigenetico per il cancro

Modello di tipo yin-yang del cancro, basato sull’interazione fra DNA e cambiamenti epigenetici. Loi (loss of imprinting) = perdita della forma cellulare differenziata (epigenetica), tipica della cellula cancerosa. CTCF = fattore proteico che regola la struttura 3D della cromatina, legando fra loro filamenti di DNA diversi. DMR  = regioni del DNA con metilazione differenziale, probabilmente per differenze nella regolazione genica. Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) qui

Da The Scientist, 5 ottobre 2022

i meccanismi epigenetici

I meccanismi epigenetici, ovvero i tipi di cambiamenti nella cromatina, che modulano l’attività dei geni in base alle condizioni ambientali

Un mio commento

Nel 2023 la scoperta della doppia elica del DNA compirà 70 anni. Difficile sopravvalutare l’impatto che questa scoperta ha avuto, prima sullo sviluppo della genetica in quanto scienza, poi sull’intera postura – ideologica e tecnologica – assunta dalla cultura occidentale nell’interpretare il mondo vivente e nell’intervenire su di esso. Una postura che si esprime tramite la visione DNA-centrica, o gene-centrica, ancora oggi dominante.

Proprio questo paradigma gene-centrico della biologia, che riduce il vivente alla sequenza di basi nel suo DNA, è il bersaglio delle critiche di Pospisilik nell’intervista sopra riportata, in forza del fatto che da almeno due decenni le scoperte dell’epigenetica continuano a dimostrarne la parzialità e l’eccesso di semplificazione. Ciò che emerge, sempre più chiaramente, è che “anche l’ambiente può influenzare i livelli di espressione genica. Tra i geni e l’ambiente c’è un intero organismo in cui [i differenti] livelli di organizzazione [molecole, cellule, organi, tessuti, organismo intero] sono intrecciati” (da: Soto A, Longo G, & Noble D (eds.) 2016, From the century  of the genome to the century of the organism – Preface).

L'abate Mendell

Gregor Mendel

Come siamo arrivati qui? Per capirlo, è utile ripercorrere in breve la storia del concetto di “gene”. Il fascino per l’eredità dei caratteri individuali, e quindi la loro profonda osservazione e poi selezione, appartiene all’umanità fin dai suoi albori (vedi p.e. in questo blog la domesticazione del mais, qui). Ma fu solo intorno alla metà dell’Ottocento, con gli esperimenti di Gregor Mendel sui piselli, che per lo studio e la selezione dei caratteri si utilizzarono per la prima volta metodi matematici. Ancora non si sapeva nulla dell’esistenza dei geni. Tuttavia, nello scoprire lavorando coi piselli che i caratteri (colore del fiore, forma del seme, ecc…) si trasmettono di generazione in generazione secondo leggi matematiche, Mendel ipotizza che vi siano elementi ereditabili in grado d’influenzare i caratteri. Ignorate per decenni, le leggi di Mendel furono riscoperte e confermate ai primi del Novecento, e nel 1909 gli elementi ereditabili furono chiamati “geni”.

Ma fino agli anni ‘40 del Novecento, la natura dei geni restò un mistero. Si era capito che sono posizionati sui cromosomi, i “corpi colorati” presenti nel nucleo cellulare che vengono ripartiti in modo uguale fra le due cellule figlie quando una cellula si divide. Ma solo nel 1943 si ottenne la prova definitiva che la sostanza da cui dipende l’eredità dei caratteri è il DNA. La scoperta del DNA risaliva al 1869, quando fu identificato come componente della cromatina, distinto dalle proteine a cui si lega formando i cromosomi. Quindi quasi 80 anni di esperimenti erano stati necessari per capire che i geni sono composti di DNA, e che in ogni organismo il DNA è il veicolo per la trasmissione dei caratteri da generazione a generazione, secondo le leggi generali dell’eredità individuate da Mendel. Ma la relazione fra geni e caratteri restava ancora oscura; si era stabilito che ogni gene controlla una catena di amminoacidi in una proteina, ma si ignorava come dal DNA si arrivasse alle catene delle proteine (le molecole che ai caratteri danno forma).

Avery scopre che il DNA è il principio trasformante

Oswald Avery dimostrò nel 1943 che il DNA è la sostanza da cui dipende l’eredità dei caratteri

tratto di doppia elica

Dieci anni dopo, nel 1953, Watson e Crick trovano che i due filamenti del DNA si avvolgono l’uno sull’altro a formare una doppia elica. La loro scoperta segnò quindi il punto culminante di un lungo cammino scientifico. Ma fu anche l’inizio di una nuova via, che vide prevalere nella genetica l’approccio molecolare. Fino a quel momento, lo studio dell’eredità dei caratteri si era basato su incroci fra organismi della stessa specie portatori di varianti differenti di uno o più caratteri, vale a dire sul metodo sperimentale applicato da Mendel. Questo approccio tradizionale – che arrivò a chiamarsi “genetica classica” – fu progressivamente messo in ombra dai nuovi metodi biochimici, applicati allo studio dei processi inerenti la molecola del DNA. La genetica molecolare assunse il DNA come l’unico determinante dei caratteri individuali, e perse di vista il concetto di “interazione con l’ambiente”, che la genetica classica ha sempre considerato e cercato di misurare.

i due scopritori della doppia elica

Watson,  Crick e la doppia elica. E’ il 1953. Photograph by A. Barrington Brown, Copyright Gonville and Caius College, Cambridge

Alla genetica molecolare degli esordi, restavano parecchie cose da scoprire: si ignoravano ancora tutti i passaggi nella catena di reazioni chimiche che porta dal DNA alle proteine, ovvero ancora nulla si sapeva del processo di “espressione genica” che porta ai caratteri. In quella fase Watson e, soprattutto, Crick ebbero un ruolo fondamentale nell’aprire nuove prospettive di ricerca, e anche di pensiero. I due scopritori della doppia elica intuirono che la complementarità fra le coppie di basi sui due filamenti opposti del DNA era la chiave per ipotizzare processi ancora sconosciuti, come la duplicazione del DNA, la sintesi delle proteine e l’esistenza di un codice genetico, il quale permettesse la traduzione della “informazione genetica” dalla sequenza di basi nel DNA alla sequenza di amminoacidi nelle proteine.

Il Nobel francese Jacob

François Jacob

Molti gruppi di ricerca si misero al lavoro per arrivare a individuare e decifrare il codice. Nel 1966 l’opera era compiuta, e appena due anni più tardi agli scopritori fu assegnato il premio Nobel per la Medicina. Nello stesso periodo, altri gruppi – tra cui quello dei francesi Jacob e Monod, altri premi Nobel – lavorarono a definire i processi della sintesi delle proteine. Nel corso di queste ricerche furono scoperti anche gli intermediari in RNA (RNA messaggero e RNA transfer) fino ad allora solo ipotetici, necessari per i vari passaggi della sintesi proteica.

Il Nobel Jacques Monod

Jacques Monod

Il cardine di quella costruzione concettuale era l’assunto che il “flusso dell’informazione genetica” procedesse in un’unica direzione tra le principali biomolecole della cellula: dal DNA all’RNA alle proteine. Ovvero, la relazione di causa-effetto era unidirezionale: il DNA influenza le proteine, l’opposto è escluso, quindi è esclusa ogni influenza sul DNA “dall’esterno”. Crick formulò questo concetto come ipotesi – all’epoca quasi visionaria, dato il livello di non-conoscenze – in un articolo del 1958, e lo chiamò il Dogma Centrale della biologia molecolare. Così fu fondato il regno del DNA quale monarca assoluto del mondo vivente (vedi Il mito del DNA, del grande biologo Barry Commoner, qui).

fondamento della genetica molecolare

Su questo corpo di nuove conoscenze scientifiche e tecniche si fondò la crescita della genetica molecolare, esplosiva al punto che, nel 1972, lo scienziato americano Paul Berg fu in grado di costruire il primo DNA ricombinante, cioè un DNA in cui erano stati inseriti artificialmente frammenti di DNA di una specie diversa. Era nata l’ingegneria genetica.

Dagli anni ‘80 del Novecento fino ai primi del nuovo secolo, il Dogma Centrale ha dominato in maniera quasi indiscussa, e non solo il campo della genetica molecolare. Dotata di grande forza ideologica, e sostenuta da un imponente apparato economico-industriale fondato sul brevetto dei geni, la visione DNA-centrica ha pervaso tutti gli ambiti culturali, dai mezzi di comunicazione di massa ai testi scolastici, finendo per colonizzare l’intero pensiero occidentale. Tutto era scritto nel nostro DNA e solo nel DNA, dal colore degli occhi, alle malattie, all’intelligenza, al comportamento criminale. Per citare le parole di Watson, “Una volta eravamo soliti pensare che il nostro destino fosse scritto nelle stelle. Oggi sappiamo che il nostro destino è scritto, in larga parte, nei nostri geni”. E per Francis Collins, capo del Progetto Genoma Umano, il DNA era “il libro della vita…. in cui sono scritte le nostre istruzioni, note finora soltanto a Dio”.

il padre del DNA ricombinante

Paul Berg

Ma persino nei ruggenti anni ‘80 alcuni risultati inattesi aprirono crepe profonde nell’edificio del Dogma. Infatti, contrariamente agli assunti della teoria dominante, si scoprì che la relazione tra sequenza genica e catena proteica (= carattere) non è univoca. Piuttosto, da una stessa sequenza di basi nel DNA si possono formare più proteine differenti, a seconda delle esigenze della cellula (un processo chiamato splicing alternativo, vedi qui e qui). Anche quella volta la forza della sovrastruttura economico-ideologica fu tale da assorbire il colpo. Che fu invece inevitabile dopo la pubblicazione dei risultati del Progetto Genoma Umano (PGU), nato per sequenziare il DNA umano e identificarne tutti i geni. Nel 2000 i primi risultati del PGU provocarono un terremoto, che scosse sia l’Accademia sia la Borsa. Anziché gli oltre 100.000 geni attesi in base al numero delle proteine, i geni umani erano solo 22.000 circa (molti dei quali già brevettati). Ciò confermava che lo splicing alternativo non è l’eccezione ma la regola, e che la teoria genetica doveva essere riveduta e aggiornata.

i cromosomi umani

L’intero genoma umano, rappresentato da un solo cromosoma di ogni coppia omologa. Fa eccezione l’ultima coppia a destra, quella dei cromosomi sessuali X e Y, entrambi rappresentati date le loro differenze di dimensioni e contenuto genico. Le bande colorate rappresentano le regioni geniche identificate su ogni cromosoma.Hubbard, et al. (2002). “The Ensembl genome database project”. Nucleic Acid Res. 30 (1).

DNA spazzatura

“Junk DNA” in un’immagine dell’epoca. Credit http://www.forbes.com

Un’altra chiara manifestazione della miopia a cui poté arrivare il paradigma gene-centrico nel ventennio di regno incontrastato del Dogma Centrale, è stata la nozione di “junk DNA”, DNA spazzatura. A essere bollato come “spazzatura” era solo il… 98% del DNA umano (ma anche di molti altri organismi superiori), perché non porta il codice per nessuna proteina e quindi “non serve a nulla”. Il Dogma era interpretato come un vero dogma, e non c’era spazio per dubbi sulla reale portata delle nostre conoscenze: sapevamo e potevamo tutto sulla biologia e l’evoluzione dei viventi. Di qui la forza di quella visione e la sua persistenza.

Altra tappa importante nella caduta al rallentatore del vecchio paradigma genetico è stato il progetto ENCODE, tuttora in corso. Avviato nel 2003 al termine del PGU, ENCODE si propone d’individuare tutti gli elementi del DNA che hanno una funzione per l’organismo, anche se non portano il codice per proteine. Finora si è trovato che più dell’80% del DNA umano svolge funzioni essenziali. Si tratta di sequenze che producono RNA non tradotti in proteine, ma che hanno ruoli importanti nel regolare il funzionamento del DNA, il sistema immunitario e i processi dello sviluppo. Sempre più, quindi, la regolazione del “sistema” genetico (DNA + RNA + proteine) si rivela complessa e intricata. Oggi sappiamo che al singolo carattere spesso contribuiscono sequenze interagenti distribuite sull’intero genoma. La complessità di queste interazioni è tale che molti genetisti ritengono “gene” un termine ormai superato e preferiscono parlare di “reti geniche regolative” (vedi qui).

Logo del progetto ENCODE

Progetto ENCODE – ENCyclopedia Of DNA Elements

Ma il colpo definitivo alla visione DNA-centrica è venuto dall’epigenetica. Nata negli anni ‘40, questa branca della biologia sta avendo nel secolo XXI uno sviluppo enorme e “inatteso”. L’epigenetica sta sempre più individuando i meccanismi con cui l’ambiente influenza il funzionamento del DNA inducendo modifiche – ereditabili ma anche reversibili – nella cromatina, che fanno sì che certi geni funzionino in certi momenti, o in certe cellule, e in altri/e no. Insomma, è l’ambiente, con la sua miriade di interazioni e di segnali provenienti dal mondo fisico e dagli altri viventi, a dirigere l’orchestra dei geni nel DNA di ogni organismo.

DNA come un piano

L’epigenetica quindi introduce nell’ambito delle scienze naturali una visione “olistica” del mondo vivente, che finora aveva trovato espressione solo nell’ecologia. Il fatto che ad essere investita da questa innovazione sia una disciplina come la genetica odierna basata su un pensiero fortemente riduzionista e determinista, e con una forte impronta applicativa, è un cambiamento di portata enorme. Per questo occorre evitare consapevolmente il rischio – che a tratti traspare anche nell’intervista a Pospisilik – di limitare la portata di queste scoperte all’aggiunta dei nuovi approcci epigenetici, più efficaci perché dinamici e complessi, alla “cassetta degli attrezzi” per il trattamento di condizioni patologiche. Ciò è senz’altro importante, ma l’epigenetica può darci ben di più: strumenti concettuali e pratici innanzitutto per prevenire le condizioni che portano alle patologie. Ma soprattutto ci spinge a un cambiamento radicale nel nostro modo di pensare e di agire riguardo al mondo.

Infatti, con l’epigenetica il cerchio si chiude. Cade definitivamente l’isolamento dei “geni” implicito nel Dogma Centrale, sotto l’accumularsi di innumerevoli prove che i fattori dell’eredità NON sono agenti autonomi, cioè indipendenti, ma anzi interagiscono continuamente con gli altri geni e con l’ambiente. Le risposte epigenetiche così indotte possono essere diverse nei diversi momenti e nelle diverse cellule di un singolo organismo. Ciò determina una grande plasticità del genoma, che è la fonte della capacità dell’organismo di adattarsi ai cambiamenti ambientali.

Tutto ciò imporrebbe una profonda revisione del paradigma genetico, probabilmente a partire dal concetto stesso di “informazione genetica”. Oggi molti studiosi criticano l’analogia con le teorie classiche dell’informazione che il concetto di “informazione genetica” sottintende (p.e. vedi qui e vedi N. Perret, G. Longo (2016), Reductionist perspectives and the notion of information qui). Secondo queste analisi, l’attuale concetto di “informazione” in biologia sarebbe null’altro che una metafora fin troppo semplificante, che non tiene in alcun conto le peculiari proprietà della materia vivente.

interazione genotipo e ambiente

Le risposte epigenetiche agli stress ambientali portano all’adattamento dell’organismo all’ambiente. Int. J. Mol. Sci. 2020.

E tuttavia il paradigma gene-centrico continua a improntare molta parte della scienza accademica dominante, e fa da supporto al concetto di “miglioramento genetico” basato sulla modifica della sequenza del DNA. Perché? Le ragioni possono essere molte. Una è senz’altro perché questo paradigma sostiene – e quindi ne è sostenuto – l’industria oggi più potente al mondo, l’apparato agro-farmaceutico. Ma l’altro aspetto fondamentale, soprattutto per il suo peso nel plasmare le coscienze dei più giovani, sta nel suo potere di alimentare l’ideologia del controllo umano sulla natura, tramite la possibilità tecnica di modificare il DNA, molecola ubiquitaria nel mondo vivente. Questa dottrina secondo cui come umani abbiamo il potere – e il diritto – di cercare di controllare e indirizzare l’evoluzione nostra e di tutti i viventi è ancora uno dei pilastri ideologici dell’Antropocene.

Uscire da questa visione, e riposizionare la specie umana come semplice nodo nell’intricata rete della vita, non è soltanto un’esigenza etica – che peraltro il disastro ecologico in atto ci impone. Ma, come emerge anche dalle scoperte dell’epigenetica, è l’unico modo scientificamente sensato di partecipare al processo evolutivo di cui siamo parte.

inquinamento atmosferico

La vita sul pianeta evolve in un costante divenire “sul limite del caos”. Momento per momento, un nuovo equilibrio emerge dal caotico intrico di miriadi di esseri interagenti fra loro e ognuno con l’ambiente – e ciò dal micro al macrocosmo. L’equilibrio della natura – variabile e mai fisso – che emerge da questo caos vitale è frutto unicamente delle leggi dell’interazione che molti milioni di anni d’evoluzione e selezione naturale hanno sedimentato nei viventi a tutti i livelli, dal molecolare all’ecologico.

Poiché ogni interazione è evolutiva, l’evoluzione della vita emerge come co-evoluzione. In questo quadro di perenne dinamismo creativo, il percorso evolutivo delle specie (a partire dalle specie molecolari) NON è controllabile né prevedibile, essendo l’esito della selezione naturale sui risultati dell’interazione fra innumerevoli fattori, tra cui quelli genetici pesano quanto quelli casuali.

ape e fire

Esempio straordinario di co-evoluzione è quello tra insetti impollinatori e piante con fiori.

Se nessuna componente del “sistema vita” funziona in modo isolato, ovviamente è del tutto ingiustificato e riduttivo continuare a pensare che modificare la sequenza di basi nel DNA di un organismo possa portare ai cambiamenti stabili, prevedibili, che noi desideriamo. “L’errore della biologia del ventesimo secolo è stato assumere con troppa facilità che la causalità sia unidirezionale” (op. cit., qui).

La forza della vita sta proprio nell’essere una rete interdipendente, con il potere di riparare le “smagliature”. Quando finalmente smetteremo di abusarne e di mettere a rischio le sue capacità di rigenerazione?

farfalla Geometride